Chi si aspettava una decisa crescita dell’occupazione dal Jobs Act è rimasto deluso. Una crescita dei posti di lavoro c’è stata, ma dovuta per lo più dalla sostenuta decontribuzione decisa con la legge di stabilità dello scorso anno. Questo non vuol dire che la riforma del lavoro sia stata inutile, ma i risultati non potranno che essere dilazionati nel tempo. Serve del tempo perché le modifiche intervenute nella legislazione portino dei risultati concreti, misurabili in termini di posti di lavoro. Del resto, come si sa bene, non è per decreto che cresce l’occupazione. Un vero aumento non può venire che da una ripresa economica sostenuta, e al momento questa non si è ancora verificata. Siamo in mezzo al guado, alcune buone notizie non mancano, ma non fanno sistema, così come la realtà positiva delle aziende che esportano non è in grado di cambiare i connotati della nostra economia, che vede la domanda interna languire ancora e la produzione industriale non recuperare terreno.
Servono degli investimenti perché l’economia riprenda, ma questi non verranno da soli, possono essere solo il frutto di una politica industriale che nei fatti rimetta in moto il sistema. Una politica industriale che indichi i settori da sviluppare e gli strumenti che potrebbero essere utilizzati per ottenere questo risultato. La nomina del nuovo ministro dello Sviluppo economico nella persona di Carlo Calenda potrebbe essere un’indicazione positiva, perché ha una certa dimestichezza dell’ambiente imprenditoriale, ma ovviamente questo non basta.
Non è detto dunque che finalmente avremo una vera politica industriale, mentre e’ certo che questa è indispensabile perché qualcosa accada. Gli imprenditori non sono dei benefattori, investono se hanno qualche certezza di un ritorno del loro impegno finanziario, se hanno la percezione di un governo disposto a sostenerli quando decidono di andare in una certa direzione, mettendo dei quattrini su un progetto industriale.
Ma di politica industriale nel nostro paese non se ne vede traccia da decenni. In fin dei conti, gli ultimi veri interventi furono fatti alla metà degli anni Settanta, quando tutto l’apparato industriale fu oggetto di una profonda ristrutturazione: da allora ci sono stati solo pochi interventi, per di più non coordinati tra loro, non quanto sarebbe stato necessario. Oggi è il momento invece di avere qualcosa di più strutturale, che sia supporto vero di un nuovo sviluppo.
Renzi di economia si intende poco, e infatti giustamente poco ne parla, ma è compito di un capo del governo consapevole muoversi in tutti i campi, altrimenti la sua azione non potrà che essere cedente. Il presidente del Consiglio si muove con forza e determinazione nel campo istituzionale, ma non può tralasciare l’economia e la politica industriale se davvero vuole cambiare questo paese in profondità, e non solo nelle apparenze.
Certo, questo significa fare delle scelte, anche difficili. Il liberismo ha fallito, su questo non ci sono dubbi, e lo Stato deve assumere un ruolo diverso, più attivo, più partecipativo. Le forme sono naturalmente da decidere, ma un ruolo della parte pubblica più forte appare indispensabile. E’ quanto ha fatto Obama negli Stati Uniti e i risultati ci sono stati e molto importanti, nonostante le difficoltà fortissime che aveva l’economia americana al momento in cui è partita la crisi di questi anni. Ma chi governa il nostro paese è pronto a spingere per un ruolo di verso della mano pubblica nell’economia? Questo è tutto da verificare.
Nessuno pensa a una riedizione del vecchio Iri, anche se un certo rimpianto per quella realtà resta in tanti. Era un modello vincente, quello delle partecipazioni statali, che venivano a studiare da tutto il mondo, determinante nel sostenere la crescita impetuosa della nostra economia negli anni Cinquanta e Sessanta, quando eravamo cresciuti improvvisamente al di là di qualsiasi più rosea aspettativa. Poi ci sono stati gli errori, macroscopici, della politica e tutto il sistema si è sfasciato, perché la parte politica, non certo quella manageriale, aveva fallito. Si tratterebbe allora di riuscire a creare qualcosa che ridia forza e vigore all’intervento pubblico e aiuti a tratteggiare lineamenti veri di politica industriale. Sarebbero assicurati così i nuovi investimenti? Forse no, ma se si resta fermi questi certo non piovono dal cielo. E in un momento cui sta per partire nel mondo il progetto di Industry 4.0 mancare a questo impegno potrebbe essere fatale per la nostra economia. Il declino è dietro l’angolo, sempre che non sia già una realtà: rimettere in moto la macchina è un obbligo, non un’alternativa.
Massimo Mascini