Lo smart working, che in inglese suona come “lavora dove vuoi, come vuoi e quando vuoi”, ben oltre la logica del nostro vecchio telelavoro, fa bene alle imprese, ai sindacati e ai lavoratori. Non è semplicemente un refrain.
Fa bene alle imprese perché consente loro di beneficiare della tecnologia ed ad un costo ridotto grazie al decreto interministeriale dello scorso 25 marzo emanato in attuazione della legge di stabilità 2016 (precisamente, dell’art. 1, comma 182, della legge n. 208 del 2015).
Con esso, infatti, i redditi derivanti dallo smart working, sono soggetti, entro i 2.000,00 euro (2.500 se i lavoratori partecipano alla gestione dell’impresa) all’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito pari al 10%.
Lo smart working fa bene ai sindacati, che invece lo guardano con sospetto, perché li pone dinanzi a nuove sfide, a partire da quelle che riguardano l’ingegneria contrattuale.
Come regolarlo? Come operare, digitalizzandosi ad esempio? Come consentire la verifica della produttività di ogni singolo lavoratore? Come scongiurare il rischio di tecno stress? A quale livello di contrattazione dare più spazio a questo fine? Sono tutte domande a cui essi sono chiamati a rispondere.
Lo stesso decreto interministeriale subordina l’agevolazione fiscale alla condizione che il ricorso allo smart working sia previsto da contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.
Lo smart working fa bene, infine, ai lavoratori, padri e madri perché, al netto del rischio di una società di workaholics, consente loro di lavorare anche da luoghi molto più vicini ai propri figli, primo fra tutti da casa.
Soprattutto in un tempo, come il nostro, in cui gli adolescenti, in assenza della figura genitoriale, presa dai ritmi lavorativi del XXI secolo, rischiano di rincorrere miti sbagliati, rifugiandosi, quando possono, nella realtà virtuale. Quella di uno schermo, il più delle volte di un iphone. La rete “reifica”, nella loro ottica.
E cosi, lo smart working è anche uno strumento di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Ed anzi, è in grado di spostarne l’asse dalla logica della tutela di eventi occasionali, la paternità, la maternità, i congedi parentali, a quella della tutela della formazione continua dei figli, in una sola parola della loro crescita.
Se cosi stanno le cose, non resta allora che compiere ulteriori passi in avanti sul terreno dello smart working. Il prossimo potrebbe essere quello di riconoscere, per mezzo della contrattazione aziendale, abilitata a tal fine dal nuovo art. 51 del TUIR, la finalità di welfare che esso persegue e quindi di esentare dall’imposizione fiscale parte dei redditi che ne derivano.
E’ davvero raro, del resto, che qualcosa giovi insieme ad imprese, sindacati e lavoratori, o per meglio dire al Paese intero. E, per questo, bisogna cogliere tutte le opportunità che ne vengono.