La relazione di Vincenzo Boccia all’assemblea di Confindustria va letta con la mente, non con il cuore. Se la leggi da lontano ci trovi tanta saggezza, certamente buon senso, un’attenta dosatura degli argomenti, ci vedi un’attenzione degna di nota alle difficoltà del paese e dell’organizzazione che si appresta a guidare per i prossimi quattro anni. Se invece fai l’errore di leggerla col cuore di chi ha vissuto per anni di una certa Confindustria, che era abituato per questo a un livello più elevato, non puoi non rimanere deluso, magari anche profondamente. C’è tutto in questa relazione, l’industria e la Confindustria, naturalmente, la politica industriale, la politica tour court, il mezzogiorno, l’esigenza della crescita, il vuoto degli investimenti, la necessità di riprendere centralità, dell’Italia in Europa, dell’industria nella nostra economia e nella nostra politica. C’è il bisogno di coesione sociale, la necessità di aiutare chi è debole, l’attenzione a chi resta indietro. Ma non c’è un’anima vera, non c’è un progetto, non c’è quella tensione morale che forse nella relazione con cui un presidente di Confindustria apre il suo quadriennio non dovrebbe mancare. Attenzione, non c’è sempre stata questa tensione sociale e morale nelle altre relazioni di apertura di nuove presidenza. Non sempre, ma qualche volta sì, e il ricordo dell’emozione provata in quelle occasioni è ancora forte dopo tanti anni.
Quella di Boccia, lo abbiamo detto tante volte, è una presidenza debole. Anche nell’ultima votazione, quella avvenuta nella sessione privata dell’assemblea, non ha raccolto più dei due terzi dei voti. Pochi, troppo pochi, anche considerando che nel terzo che è mancato ancora una volta all’appello ci sono pezzi forti della migliore industria, senza i quali è difficile marciare, o almeno marciare spediti verso obiettivi chiari. Una presidenza debole si accontenta di non pestare i piedi a nessuno, di limitarsi a indicare le cose più necessarie, sulle quali nessuno può dissentire. E infatti i commenti sono stati tutti positivi, perché nessuno ha trovato nulla da ridire su quello che il neopresidente Boccia aveva appena detto. Il punto è che forse serviva qualcosa di più.
Il sindacato è appena nominato in questa relazione. Per ricordare che la Confindustria ha fatto di tutto per arrivare a nuove regole della contrattazione, ma il sindacato è stato contrario. Motivo, più che valido, per cui adesso non si può pensare di aprire un negoziato interconfederale, lo si farà, forse, quando tutti i contratti saranno chiusi. E la relazione afferma che “sarebbe opportuno” che queste nuove regole non vengano intanto da qualcun altro, dal governo tanto per fare un nome. Ripeto, la Confindustria “ritiene opportuno” che il governo non detti le nuove regole della contrattazione: non è decisamente contraria, non crede che questo sarebbe un’invasione indebita di campo. Non c’è quella difesa della propria autonomia, delle proprie competenze, in fin dei conti della propria realtà. La Confindustria non fa solo contratti, ma nasce e si sviluppa per un intero secolo su questa funzione: rinunciarvi così, dimenticarsene sembra una sciatteria prima che una colpa.
E snobbando il sindacato, non difendendolo, Confindustria commette un errore, e un errore grave in una fase storica che è contraddistinta dalla voglia di disintermediazione, espressa dal governo di Matteo Renzi, ma non solo. Quasi senza rendersi conto che tra quei corpi intermedi che si vogliono emarginare, quindi in qualche modo far fuori, c’è anche e soprattutto la Confindustria e le altre organizzazioni che rappresentano l’imprenditoria.
Al sindacato la relazione di Boccia offre un confronto su due argomenti, le politiche attive del lavoro e l’invecchiamento attivo. Forse un po’ di fantasia in più non avrebbe guastato. Perché sono temi certamente importanti per la realtà delle imprese, ma ce ne sono certamente molti altri più rilevanti per descrivere il futuro. Sempre che alla centralità dei corpi intermedi si creda davvero. Perfino il governo di Matteo Renzi ha avviato un discorso con i sindacati sulle pensioni, riavviando uno straccio di relazione diretta: dal presidente di Confindustria poteva venire qualche suggestione più forte.
Forse quello che manca a questa relazione è un cenno diretto non solo alla crescita, ma allo sviluppo. La crescita di per sé può essere sufficiente, ma non basta. Lo sviluppo è una speranza, un traguardo, un obiettivo che può e deve essere colto, per raggiungere il quale ci si può spendere tutti, senza economie. Ed è anche una espressione di fede nell’aldiquà, in quello che tutti noi possiamo fare.
Massimo Mascini