Un compromesso per il sindacato. Capace di “tenere insieme in un’organizzazione di rappresentanza la vitalità degli ideali iniziali con la prosaicità di una gestione tanto efficiente quanto burocratica”. Passato e futuro, insomma. Un compromesso per “sfuggire alla deriva delle prediche nostalgiche sui valori perduti”, ma anche “alla tentazione opposta del cinico realismo organizzativo che si adagia sui riconoscimenti materiali e di status”. È un po’ questa la tesi di fondo che sorregge un assai interessante libro di Mimmo Carrieri e Paolo Feltrin, “Al bivio. Lavoro, sindacato e rappresentanza nell’Italia di oggi” (Donzelli, pagg. 229).
E già la firma congiunta di questi due studiosi rappresenta una notizia. Perché il primo é molto vicino alla Cgil e il secondo alla Cisl. Questo non ha impedito la stesura “a quattro mani” e anche l’esposizione di tesi in parti diverse nel dialogo conclusivo. I due autori hanno partorito uno strumento che può essere molto utile a chi si batte per il rinnovamento del sindacato. Non a caso, Carrieri e Feltrin hanno chiesto una presentazione a Guido Baglioni, autorevole studioso caro alla Cisl fin dai tempi di Pierre Carniti. Che conclude il suo intervento condividendo “la speranza degli autori e di molti altri”. Ovvero, che il sindacato viva e non sopravviva.
Un’epigrafe che si collega a un altro libro del passato citato da Carrieri-Feltrin: “Declinare crescendo” di Bruno Manghi. È questo un altro filo conduttore dell’indagine condotta, fatta di numeri, ricerche, confronti a livello europeo, ma anche con gli Usa. Fino a giungere alla conclusione che testimonia l’esistenza di un sindacato che ha visto crescere i propri apparati, con “23-27mila addetti (tempo pieno equivalenti), una minoranza in ruoli politici, la maggioranza in ruoli tecnici, di staff, o nei servizi”. Mentre sono state erose le sue due funzioni principali: quella contrattuale è quella di soggetto politico, che “hanno trainato a lungo la presenza dei sindacati nelle società del Novecento”.
Che fare? La ricetta sta in quel compromesso che dicevamo all’inizio. Il Testo unico sulla rappresentanza, malgrado qualche rilievo critico, appare uno strumento importante. Il tasto caro a Carrieri e Feltrin è però quello del rinnovamento dei gruppi dirigenti sindacali. Compare qui una tesi singolare. Quella per cui nel passato, osserva Carrieri, le correnti politiche limitavano “le degenerazioni oligarchiche interne, perché erano interessate a un sindacato che facesse bene il suo mestiere”. Cosí Feltrin osserva che “Benvenuto, Trentin, Lama, Carniti diventano massimi dirigenti sindacali giovanissimi, tra i trenta e i quarant’anni, mentre oggi la selezione si è spostata tutta sui sessantenni”.
Si tratta di “un punto di difficoltà reale, anche perché nessuna di queste associazioni, ogni volta che si presenta in pubblico, può mostrare un volto giovane: non solo il sindacato, ma anche Confindustria, Confartigianato, Confcommercio, e così via…”. Un’osservazione non priva di efficacia, anche se peró gli autori non considerano il fatto che un tempo i Lama, i Trentin, i Benvenuto e i Carniti rimanevano in carica per molti più anni, mentre oggi prevalgono i limiti di mandato. Non solo. Un tempo il maggior turn over era collegato anche alla possibilità di sperimentare passaggi da cariche sindacali a incarichi politici o in cooperative, o in altre organizzazioni.
Nel libro si pone, in ogni modo, il tema di come sia possibile oggi favorire la “carriera” di dirigenti per meriti assodati. Vi si tocca la scelta (a suo tempo sostenuta da Maurizio Landini) di possibili primarie. Carrieri suggerisce di non copiare le esperienze dei partiti, ma di “mettere in moto una dinamica in base alla quale si inneschi una contendibilità degli incarichi dirigenziali…”. Nello stesso tempo, lo studioso propone di cercare di favorire l’ascesa di giovani senza privarsi dell’apporto di anziani competenti. Perché “la carriera di sindacalista, se uno è bravo e competente, non è un cursus che deve necessariamente finire a 55 anni, può finire tranquillamente a 65-70”.
Un’osservazione ancora più di fondo scaturisce nelle ultime pagine del libro, quando si affrontano i temi dell’azione sindacale con la denuncia di una certa “coazione a ripetere”. Non ci sono più svolte, ricorda Feltrin, come la “svolta dell’Eur”, quella della Cgil sulla contrattazione di fabbrica, quella di Carniti sulla scala mobile. Non si accenna, in questo testo, a quella che a mio parere potrebbe essere definita la svolta di Bruno Trentin, quando lanciò alla Conferenza organizzativa Cgil di Chianciano del 1989 “il sindacato dei diritti e della solidarietà”, parlando più di “persone” che di “classe”.
Pare di capire che, comunque, per lo studioso vicino alla Cisl sarebbe meglio imboccare decisamente la formula del “sindacato istituzione”. Una discussione affrontata anche nel passato. Qui le opinioni tra i due autori sembrano differenziarsi, con Carrieri che osserva come “l’istituzionalizzazione, se vissuta in misura esasperata, può essere anche un fattore di staticità”. Una discussione che andrebbe ulteriormente approfondita. Il lavoro dei due studiosi rappresenta, in questo senso, un vero stimolo. Per far vivere al sindacato una nuova stagione, rifiutando la strada di chi vorrebbe, se non annullarlo, imprigionarlo in un’esigua dimensione corporativa. Una lobby come tante.