Domani 31 maggio, in Senato, alla presenza del Presidente della Repubblica, verrà ricordato il ventesimo anniversario della scomparsa di Luciano Lama. Il leader storico della Cgil, l’erede di Giuseppe Di Vittorio che lo volle giovanissimo al suo fianco, aveva lasciato la segreteria della Cgil nell’ormai lontano 1986. Ma se si vuole raccontare la storia del sindacato diventa obbligatorio parlare di lui. Lama è la persona che ha imposto il sindacato tra i grandi protagonisti della vita del Paese e lo ha reso familiare agli italiani, al pari di ogni altra realtà appartenente alla loro normale quotidianità. Naturalmente, tali processi dipendevano da un complesso di fattori non tutti riconducibili al carisma e alla personalità di Lama. Anche lui, come tutti, era figlio del suo tempo.
All’inizio degli anni ’70, quando Lama divenne segretario della Cgil, dietro la “grande marcia” del sindacalismo confederale c’era lo strappo dell’autunno caldo (del 1969), con le sue conquiste immediate e di prospettiva e soprattutto con quel saldo rapporto di fiducia che il movimento sindacale era riuscito a stabilire con i lavoratori, ricavandone una forza organizzativa senza precedenti. Si era consumata, in quella fase, una devastante rottura di tutti gli equilibri, politici, economici e nei rapporti tra le classi sociali. Sembrava a portata di mano un profondo rivolgimento degli ordinamenti istituzionali. E ciò creava forti timori in molti settori della società italiana. Luciano Lama ebbe la capacità sia di garantire i lavoratori e di preservare la loro fiducia nell’azione riformista, graduale ed evolutiva del sindacato (contro tutte le suggestioni rivoluzionarie che poi sfociarono, come schegge impazzite, nella lotta armata e nel terrorismo che Lama contrastò con assoluta determinazione), sia di dare al Paese la certezza che la situazione era sotto controllo, in mano a persone responsabili e consapevoli, che non avrebbero permesso salti nel buio.
Di Lama – amendoliano, migliorista, moderato, riformista anche se lui preferiva definirsi ‘’riformatore’’ – si possono scrivere voluminose biografie ricche di esperienze e di episodi che, nel bene come nel male, hanno intessuto la nostra storia. Fu soprattutto un convinto protagonista di un grande impegno unitario, non da solo, ma insieme con gli altri ‘’giganti’’ della sua epoca, appartenenti alla Cgil e alle altre confederazioni sindacali. Ed è proprio quell’impegno – portato avanti in anni in cui il mondo era diviso in due fin all’interno dei posti di lavoro e delle famiglie stesse – a dare testimonianza del profilo scadente degli attuali gruppi dirigenti sindacali, eredi inadeguati dei loro ‘’padri nobili’.
Di Lama, quindi, voglio ricordare la sua linea di condotta in un passaggio critico della vita della Cgil: la vicenda, anch’essa dimenticata, della c.d. scala mobile, un automatismo retributivo che contribuì a fare esplodere l’inflazione, a devastare le retribuzioni, a sconvolgere le gerarchie professionali, a determinare un egualitarismo innaturale che ferì a morte il potere del sindacato come “autorità salariale”. E che mise a dura prova non solo l’unità sindacale, ma anche l’unità stessa della Cgil. Lama – insieme ai suoi ‘’aggiunti’’ socialisti: Agostino Marianetti, prima, e ad Ottaviano Del Turco, poi, nella fase più acuta – riuscì ad evitare che l’ultima ‘’casa comune della sinistra’’ andasse in pezzi. Furono due anni terribili. Iniziarono nel 1984 con il famoso “decreto di S. Valentino”, il provvedimento con cui il Governo Craxi intervenne sulla dinamica della scala mobile; l’anno successivo si svolse la battaglia referendaria promossa (e persa) dal Pci per l’abrogazione del decreto convertito in legge.
Ambedue queste battaglie – che spaccarono il Parlamento e la sinistra – si combatterono ad ogni livello nel Paese, ma la prima linea attraversava la Cgil, in cui le componenti vivevano da “separate in casa”. Tutto sommato, la costituzione materiale della Cgil funzionò anche in quei mesi di assoluto black out. I comunisti usarono un’intelligente prudenza, come se avessero fatto tesoro dell’esperienza del 1948. Non si avvalsero mai del diritto della maggioranza in tutti gli organi dirigenti per decidere e proclamare degli scioperi che impegnassero la sola Cgil. Dove furono in grado, i comunisti si avvalsero dell’azione di consigli di fabbrica (i c.d. autoconvocati), al punto di metterne insieme un gruppo a cui era imputata l’adozione delle iniziative di lotta.
Dopo la conversione del decreto, la Confederazione riuscì a riprendere fiato. Per pochi mesi, però. A seguito del referendum abrogativo promosso l’anno dopo dal Pci venne riattivata la logica dello scontro frontale tra l’universo comunista e i suoi “compagni di strada”, da un lato, Cisl, Uil, socialisti della Cgil, partiti della maggioranza, dall’altro. Contro ogni aspettativa (a prova dell’esistenza di un paese migliore della sua classe politica) vinsero nettamente i No. Il contraccolpo in Cgil fu pesante. Ma Lama impedì che l’organizzazione s’inviluppasse nelle polemiche e riprese in mano la situazione riannodando i rapporti con le altre confederazioni sindacali. Ecco perchè ho voluto ricordare, in una vita tanto ricca di esperienze come quella di Luciano Lama, la storia archiviata della c.d. scala mobile. E’ nei momenti particolarmente difficili che si misura la grandezza di un leader.