Il riformista è “convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo” (Federico Caffè, in “La solitudine del riformista”, Il Manifesto, 29 gennaio 1982).
Lunga e onorevole è la storia della parola riformismo nella cultura politica italiana. Purtroppo, negli ultimi anni, l’espressione sembra essere stata altrettanto abusata, distorta o svuotata di significato in nome del moderatismo o, addirittura, della subalternità e della conservazione degli interessi costituiti. Anche guardando alla sinistra italiana, storicamente si sono distinte negativamente declinazioni del riformismo iper-istituzionalistiche, in nome della superiorità della politica rispetto alla “questione sociale” (qualcosa che assomiglia a “la società non esiste” di tatcheriana memoria), dunque alla stessa economia, oggi non a caso considerata tecnica del potere e non più scienza sociale, “morale”, come alle origini. Altre correnti riformiste si sono caratterizzate per eccesso di fiducia nel libero mercato, in generale nella libertà degli individui, dimenticando “ragioni e significati della distinzione politica tra destra e sinistra” (cit. N. Bobbio), anche a scapito dell’uguaglianza o, anche solo, dell’equità. Ciò ha portato ad una vera e propria eterogenesi dei fini che ha condotto anche i governi di centrosinistra alle privatizzazioni, alla denormativizzazione, alla decollettivizzazione, alla deregolazione, alla finaziarizzazione, all’austerità. Ma questa è un’altra storia. Non è questo il caso del sindacato.
Nel Sindacato italiano – ancora radicato, autonomo e propositivo – non sono venuti meno valori e ideali. Tanto è vero che la retorica mediatica ha utilizzato la difesa di quei valori e di quegli ideali per attaccare la membership delle organizzazioni sindacali con l’accusa di conservatorismo. In realtà, l’unico effetto negativo della “tenuta” del Sindacato italiano è stato l’indebolimento della confederalità e il prevalere di spinta più con-federalista: i duri colpi della crisi sul lavoro hanno accentuato lo spirito corporativo e polarizzato le “sensibilità” politiche interne alle confederazioni sindacali. Nella storia del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, le due culture riformiste originarie possono essere sinteticamente distinte da una linea immaginaria che coincide con il Po, al di sopra del quale c’è sempre stata una cultura che pone al centro le categorie e la contrattazione collettiva, in cui insistono dialetticamente nei luoghi di lavoro partecipazione e conflitto; mentre al di sotto si è affermata una cultura più politica, territoriale e istituzionale (spesso ispirata alle social-democrazie europee), in cui convivono elaborazione politica e movimento. Oggi, però, entrambe queste culture sono state messe a dura prova dalla crisi economica (basti pensare alle crisi aziendali, settoriali, locali, occupazionali, salariali) e dalla stessa crisi politica (per definizione, anche istituzionale e democratica). Oggi, infatti, nel Sindacato, essere riformista rischia di voler dire: essere a favore della riforma costituzionale del Governo Renzi; essere a favore delle trivelle; essere a favore del Jobs Act o, comunque, adattarsi; essere scettici sulle proposte strategiche, anche se riguardano la vita del Sindacato (e se vengono dalla propria casa, come ad esempio la “Carta dei diritti universali del lavoro” della Cgil); essere più o meno consapevolmente un liberista. Mentre, paradossalmente, risulta più chiaro il significato di massimalista, radicale, critico – ovviamente in primis rispetto al Governo –, appare sempre meno chiaro cosa voglia dire materialmente essere un progressista nel sindacato. Volendo giocare con le parole potremmo distinguere i progressivisti (con vaga ispirazione alla parola inglese), cioè coloro che scommettono sul progresso, da i progressionisti (con chiaro riferimento all’etimologia della parola), ossia coloro che agiscono per progressioni, a prescindere dall’obiettivo ideale. A mio avviso, tra i veri progressisti possiamo annoverare chi oggi, malgrado tutto, resta a favore del progetto europeo, anche se vuole una politica diversa, alternativa; chi è per lo sviluppo sostenibile, anche se nell’alveo di una giusta transizione (decennale, non bicentenaria); chi è per la democrazia deliberativa e partecipativa (non plebiscitaria), dunque chi avverte la torsione democratica e istituzionale determinata dal combinato disposto fra il referendum costituzionale e la nuova legge elettorale proposti dal Governo; chi è keynesiano e non plagiato dal pensiero economico dominante tanto da non vederne il fallimento proprio nella crisi. I sindacalisti che rispondono a questo tipo di riformismo colgono la centralità delle relazioni industriali e la necessità di un modello per raggiungere la massima crescita potenziale del Paese e la piena e buona occupazione, ma sanno anche che tali ambiziosi obiettivi – come dimostra la storia – possono essere raggiunti solo se tutti svolgono il proprio compito in ragione dell’interesse generale, soprattutto i governi con una politica economica keynesiana, roosveltiana, espansiva, in cui è centrale l’intervento pubblico in economia e in cui le riforme non “ristrutturano” (da cui la parola “strutturali”), bensì danno nuova struttura, nuova forma (da cui la parola riforma). Chi la pensa così oggi, a volte, si sente un po’ spaesato nelle fila dei sedicenti riformisti. Io sono tra questi. E lo sono molti della mia generazione.
E, allora, come scrive Federico Caffè in chiusura al citato articolo del Manifesto, “il riformista si rincuora prendendo un libro che gli è caro e rileggendone alcune righe famose”: la Teoria generale di J.M. Keynes (1936).