Il 23 agosto 2007 moriva a Roma Bruno Trentin in seguito e in conseguenza dei postumi di una caduta in bicicletta mentre trascorreva qualche giorno di vacanza in una località montana che tanto amava. Che dire in sua memoria che non sia stato già detto più volte molto meglio di quanto possa dire e scrivere io che pure ho avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo e di lavorare con lui per anni ? Di lui ho tuttora un ricordo vivissimo. Soprattutto dei suoi discorsi che erano ricchi di analisi problematiche, di dubbi, di approfondimenti. Nei suoi momenti migliori, aveva la capacità di coinvolgere quanti lo ascoltavano in una importante esperienza di riflessione, attraverso un’implacabile denuncia dei limiti, delle difficoltà. Riusciva ad inseguire una situazione lungo un labirinto di variabili, di interconnessioni. E finiva sempre per convincere l’uditorio che non esisteva una strada da seguire che fosse migliore di quella che lui indicava e che l’organizzazioni, pur con tutti i limiti denunciati, aveva seguito.
Trentin sembrava un maestro, un professore che ti apriva gli orizzonti del sapere. Luciano Lama parlava per frasi fatte, compiute, una di seguito all’altra, come se stesse scolpendo sul bronzo, isolato nella sacralità del leader indiscusso; Trentin, invece, era rinchiuso nella turris eburnea di un’aristocrazia intellettuale inarrivabile. Di solito, parlava a braccio, a lungo, seguendo tracce di appunti molto estesi. In occasione dello storico Congresso della Fiom del 1970, pochi mesi dopo l’autunno caldo, Trentin, come suo solito, non scrisse la relazione, ma si presentò con un pacco di appunti alto almeno 30 centimetri. Nell’insieme parlò per quasi quattro ore. Quando venne predisposto finalmente il testo scritto, tratto dalla registrazione, andò a ruba come un best seller.
Bruno Trentin credeva nell’unità sindacale (e in quella della Cgil). Lo dimostrò con grande determinazione tante volte nei ruoli che fu chiamato a svolgere. In particolare, durante l’interminabile vertenza per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1966 che si protrasse – tutto compreso: dalla elaborazione della piattaforma alla firma dell’accordo di rinnovo, sotto Natale – praticamente per un anno. E fu una battaglia difficile, condotta sotto gli influssi di una “congiuntura” (fu in quei tempi che venne in voga la parola) assai poco brillante, di cui il padronato volle approfittare per rifarsi delle conquiste del 1963.
Fim, Fiom e Uilm, nel 1966, erano riuscite a varare, per la prima volta, un carnet rivendicativo unitario, costituito di cinque punti. L’impatto con la categoria fu clamoroso. Basti pensare al materiale di propaganda che aveva come segno grafico una mano aperta: ogni dito rappresentava un capitolo della piattaforma. C’era stato però un prezzo politico da pagare. La Fim aveva dei problemi con la sua Confederazione, allora diretta da Bruno Storti. La Cisl aveva sposato la politica dei redditi e voleva che le sue federazioni fossero prudenti sul piano delle rivendicazioni salariali. Così, per amore dell’unità, l’ultimo punto della famosa piattaforma era intitolato, laconicamente, “modifica delle tabelle salariali”: non una parola di più o una di meno. Per far digerire al quadro dirigente medio della Fiom (e del Pci) una scelta siffatta (in apparenza accomodante e rinunciataria) ci volle tutta l’abilità di Trentin, il quale escogitò la formula dei “contenuti non compiuti” della piattaforma, (a onor del vero il copyright spetterebbe a Piero Perotta, socialista, allora vice di Annio Breschi a Milano) che avrebbero trovato un loro perfezionamento nel corso di una vertenza che, intanto, aveva il merito di partire unitariamente. In effetti, il salario non si rivelò essere uno dei principali problemi (venne concesso alla fine un aumento di circa il 5%).
Lo scontro si svolse sul diritto di contrattazione articolata e sull’istituto che ne aveva rappresentato la bandiera: il premio di produzione. Dopo un bel po’ di ore di sciopero (ne furono proclamate circa 200), quando la categoria era stremata, la delegazione degli industriali metalmeccanici pretese e ottenne di mettere la camicia di forza alla contrattazione dei premi, nel senso che vennero stabilite, nel contratto nazionale stesso, le dinamiche prevedibili dei miglioramenti economici che si potevano conseguire attraverso la rinegoziazione dei premi. In sostanza, l’istituto più tipico del contratto precedente venne “imbragato” all’interno di percorsi predestinati al fine di “burocratizzarne” il rinnovo. In questo modo, i premi persero il loro afflato romantico (quello della ricerca di “elementi obbiettivi”, per intenderci) e, poco per volta, si trasformarono in erogazioni monetarie negoziate periodicamente, senza troppe storie. Ma la contrattazione articolata si spostò su terreni assai più delicati ed incisivi, nel campo dell’organizzazione del lavoro.
Allora, la segreteria nazionale della Fiom era una galleria di personaggi. Trentin e il socialista Piero Boni (altra personalità eccelsa) erano i segretari generali. Una diarchia inconsueta nella Cgil, ma che aveva salvato l’unità tra le correnti storiche, dal momento che Boni era stato per anni a fianco di Lama, mentre Trentin, appena 34enne, arrivava dalla Confederazione, senza esperienze di direzione operativa. Poi c’erano altri tre comunisti. Nell’ordine, Bruno Fernex, torinese, ebreo, molto legato a Trentin, tanto che un giornale francese lo aveva definito “le deuxième de Trentin, le grand diable noir Fernex” . Era il contrattualista della situazione insieme al secondo socialista, Elio Pastorino, genovese, sornione e capace. Poi c’era Pio Galli, da Lecco era passato a Brescia, poi al Centro federale, dove era responsabile dell’organizzazione. Ex partigiano, aveva lavorato in siderurgia al Caleotto. E lo faceva sempre notare.
Albertino Masetti, bolognese, era il più anziano e caratteristico. La sua era una storia tutta da raccontare. Antifascista, era stato in un lager, un’esperienza di cui non parlava mai, benché fosse un grande affabulatore. Era capace di tenere pallino in una conversazione per ore, senza mai perdere l’attenzione di quelli che lo ascoltavano. Per la cronaca: Albertino Masetti fu l’ultimo italiano a far parte della segreteria della Federazione sindacale mondiale (Fsm) di osservanza sovietica. La sua designazione fu il preludio del disimpegno della Cgil. Il settimo segretario era del Psiup, Elio Giovannini: una persona di grande serietà e preparazione, molto impegnato nel lavoro. Non erano da meno i leader provinciali. Della Fiom di Milano era segretario Annio Breschi, un personaggio empirico, duro, estroverso, privo di fronzoli ideologici. In polemica con Aventino Pace, detto Tino (il segretario di Torino, assai arzigogolato ed introverso) soleva dire che a differenza dei torinesi che erano cresciuti alla scuola di Gramsci, i milanesi avevano avuto solo Turati. Floriano Sita, segretario di Bologna, era finito al sindacato dopo il “repulisti” che gli innovatori avevano compiuto dopo il XX Congresso del Pcus, quando anche in Italia era stato liquidato il gruppo dirigente stalinista ed ex partigiano.
A Modena c’era un certo Eliseo Ferrari. Basti dire che quando andò in pensione si era impegnato a scrivere libri sui rapporti con l’altro Ferrari, Enzo il Drake, quello delle mitiche “Rosse” di Maranello. Rimase per circa 17 anni alla direzione della Fiom modenese. Divenne famoso quando per farsi operare di un polipo alle corde vocali si recò in Germania Est (DDR). Tanta era la fiducia nel “socialismo realizzato” che rischiò di restare per sempre muto. Per mesi si condannò ad un assoluto silenzio. Dirigeva la sua organizzazione con bigliettini scritti e trasmessi ai suoi collaboratori.
La descrizione del “contesto” mi ha fatto dimenticare per un momento Bruno Trentin. Una personalità di grande spicco, non c’è dubbio. Per certi versi un predestinato. Suo padre, Silvio, combattente della prima guerra mondiale, eletto deputato nel 1919 per il Blocco democratico, fu uno dei pochi professori universitari (ed uno dei più importanti studiosi del diritto amministrativo e del federalismo) che si rifiutarono di giurare fedeltà al Fascismo. Per questa ragione, nel 1926, prese la via dell’esilio in Francia, dove rimase fino al 1943. In terra straniera continuò la sua attività politica che lo vide tra i fondatori del movimento “Giustizia e libertà”. La sua libreria a Tolosa (la famosa “la Librairie du Languedoc”) divenne un importante punto di riferimento per gli antifascisti. Rientrato in Italia, venne arrestato dalla polizia fascista il 19 novembre 1943. Liberato poco dopo, malato di cuore si spense il 12 marzo 1944.
Bruno Trentin nacque durante l’esilio del padre a Pavie in Guascogna. Il francese fu la sua lingua madre. Per anni, confessò, aveva continuato a ragionare in francese anche quando parlava in italiano. Non a caso, sono stati sempre forti i suoi legami con la classe politica e gli intellettuali francesi. Rientrato giovanissimo in Italia partecipò ad alcuni episodi della Resistenza. Si raccontava che, travestito da tedesco, avesse contribuito ad un’azione di commando per liberare alcuni prigionieri. Laureatosi in giurisprudenza a Padova, Trentin si era recato negli Usa per un corso di specializzazione (tanto che Marco Cianca del Corriere della Sera lo definiva, tutte le volte che scriveva di lui, ‘’il sindacalista che ha studiato ad Harvard’’). Al ritorno, andò a lavorare nel mitico Ufficio studi della Cgil, allora diretto da Vittorio Foa. Abbandonò la fede liberale ed azionista di famiglia e si iscrisse al Pci. Alcuni anni dopo, divenuto responsabile dell’Ufficio studi e vice segretario confederale, fu promotore di una fase di grande vivacità intellettuale della Cgil che preparò la svolta, anche dal punto di vista culturale, seguita alle sconfitte della metà degli anni cinquanta. Poi, come abbiamo ricordato, andò a dirigere all’inizio degli anni sessanta la Fiom in condominio con Piero Boni. Il successo del rinnovo contrattuale del 1963 gli procurò una trionfale elezione alla Camera in Puglia (allora non c’era l’incompatibilità), grazie al voto dei braccianti. Degli anni successivi e delle difficoltà incontrate abbiamo parlato.
La grande stagione di Trentin coincise con l’autunno caldo del 1969 e con lo storico contratto concluso sotto Natale. Certo, Bruno ebbe dei partner eccezionali nei leader delle altre organizzazioni (Pierre Carniti, che pure non era ancora segretario generale della Fim-Cisl, e Giorgio Benvenuto alla Uilm-Uil). Ma il suo ruolo fu decisivo. Dopo l’autunno caldo, all’epoca della loro epopea, i metalmeccanici erano come il prezzemolo: invidiati, contesi, onnipresenti, fieri ed orgogliosi della loro appartenenza. Poco mancava che fossero chiamati a battezzare i bambini, a celebrare i matrimoni e a porre le prime pietre degli edifici. E non era solo un fenomeno mondano. In verità, si trattava di un’esperienza ben più corposa e complessa. In un paio d’anni la Fiom triplicò gli iscritti (anche le altre federazioni ottennero buoni risultati seppure inferiori).
La conquista della delega per la trattenuta dei contributi sindacali in busta paga funzionò da moltiplicatore delle risorse. La scelta di far eleggere da tutti i lavoratori i delegati di gruppo omogeneo (che poi andavano a costituire i consigli di fabbrica) sollecitò enormemente la militanza sindacale. Per anni i gruppi dirigenti metalmeccanici dell’autunno caldo occuparono tutte le posizioni di potere all’interno delle strutture orizzontali delle Confederazioni di appartenenza. Con il senno di poi, potremmo riconoscere oggi che insieme a quel clamore c’erano pure molti silenzi, in settori di classe lavoratrice che venivano trascinati dalla marea montante dell’egualitarismo salariale, degli scioperi facili, della violenza strisciante. Allora, però, i metalmeccanici vedevano soltanto la loro gloria; tutto sembrava divenuto possibile. Mancava soltanto di dare la scalata al cielo. Prendeva forza, ogni giorno di più, l’idea dell’unità dei metalmeccanici, intesa come costituzione di una grande federazione di categoria aderente a tutte e tre le Confederazioni. Un sogno, forse un delirio che si frantumò nelle vicende che portarono alla stipula del Patto federativo proprio per evitare una ristrutturazione delle confederazioni e un nuovo e diverso pluralismo. Fallito il disegno dell’unità organica, le Confederazioni scelsero di salvare il salvabile, dando vita ad una struttura federata (la Federazione Cgil, Cisl e Uil) con organismi paritetici e regole comuni.
La Federazione dei lavoratori metalmeccanici (la gloriosa sigla Flm), che teneva insieme le tre organizzazioni di categoria, tentò di “forzare il blocco”, convocando un’assemblea dei delegati a Brescia, a cui presero parte i gruppi dirigenti delle “federazioni amiche”, allo scopo di incoraggiare i “mitici metalmeccanici” ad andare avanti. Ma anche a Botteghe Oscure, la storica sede del Pci, avevano deciso in senso contrario. Il segnale venne chiaro e privo di equivoci. Trentin e gli altri dirigenti si astennero nella votazione che diede vita alla Federazione unitaria. L’esperienza dei metalmeccanici, però, non andò completamente perduta. Le scelte maturate nella categoria furono a lungo pedissequamente copiate, anche laddove mancavano del tutto le condizioni.
Trentin continuò a dirigere la Fiom per altri due rinnovi contrattuali (nel 1972 e nel 1976). Poi, nel 1977, venne l’ora di passare in segreteria confederale, dove svolse il suo lavoro operativo negli anni difficili a cavallo tra la fine del decennio settanta e l’inizio di quello ottanta. Alla Fiom gli successe Pio Galli. Leale nei confronti di Lama, Trentin fu l’uomo del dialogo con i socialisti della Cgil e con le altre organizzazioni sindacali: una linea di condotta che lo contrappose, nel decennio ottanta del secolo scorso, sempre più a Sergio Garavini, del quale pure era stato amico ed alleato anni prima, nella dialettica interna alla Cgil, quando Garavini dirigeva il comitato regionale del Piemonte, prima, la federazione dei tessili-abbigliamento, poi. Superata la fase della dura contrapposizione interna (sulla ‘’scala mobile’) nella Cgil, Lama decise di passare la mano, Trentin si acconciò lealmente a sostenere la candidatura di Antonio Pizzinato, il dirigente che Lama aveva indicato come proprio successore proprio per non dover scegliere tra Trentin e Garavini. Quest’ultimo fece scelte differenti: uscì dalla segreteria confederale per andare a dirigere la categoria dei metalmeccanici. Poi, alla prima occasione, accettò una candidatura e venne eletto alla Camera. Il destino, però, era in agguato. Alla fine del 1988, Pizzinato – che non aveva dato buona prova – venne indotto a dimettersi (volle restare comunque in segreteria confederale) e la Cgil si rivolse – come a un salvatore -a Trentin, incoronandolo segretario generale, a furor di popolo. Fu un momento assai felice. Nel vertice confederale Bruno poteva contare su molti amici, su veri e propri “metalmeccanici d’annata” che avevano lavorato con lui alla Fiom e che ne avevano un grande rispetto.
La Cgil usciva dall’umiliazione di una leadership inadeguata. Trentin impresse una svolta radicale. La sua stessa persona era una garanzia di attenzione e di interesse da parte dei media, del padronato e di tutti quanti gli apparati del potere. Per i lavoratori era un mito. Allora la Cgil – dopo gli avvenimenti degli anni ottanta – manteneva aperta una ferita a sinistra; erano nate le prime organizzazioni di base, soprattutto nella scuola o tra i macchinisti delle Fs e i portuali. Tutta gente che era o era stata comunista. In un Convegno che si tenne a Chianciano Terme, a Trentin riuscì un importante discorso conclusivo, con il quale diede il segnale (con l’affermazione “anche i lavoratori possono sbagliare”) che la Cgil non avrebbe più avuto atteggiamenti codini nei confronti dei c.d. movimenti.
Ma i processi maturavano rapidamente e nascevano problemi nuovi che si intrecciavano a quelli vecchi ed irrisolti.
Da segretario confederale, Bruno Trentin si trovò ad affrontare antiche pendenze provenienti dall’inizio degli anni ottanta (la sorte della “scala mobile” e l’assetto della struttura della contrattazione) in un contesto assolutamente nuovo: il crollo del Comunismo (la Cgil era impegnata in un’assise a Firenze il 9 novembre 1989, quando si sgretolò il Muro di Berlino), la trasformazione del Pci e il tramonto definitivo di quel monolitismo comunista (invero già parecchio in crisi) che aveva rappresentato, tradizionalmente, la costituzione materiale della Confederazione, nel senso che la disciplina della componente di maggioranza aveva garantito la tenuta dei patti e delle decisioni all’interno della Cgil e con la Cisl e la Uil. Già da alcuni anni si era aperta una dialettica tra partito e sindacato che aveva creato non pochi problemi, ad ogni livello, ai militanti comunisti. Nei primi anni novanta, però, la diaspora divenne esplicita ed ufficiale. Non solo nacque un altro partito comunista (il Prc) non disposto a cambiare nome, ma Fausto Bertinotti (allora componente della segreteria confederale, ancora iscritto al Pci-Pds) fondò una corrente di sinistra (“Essere sindacato”) che nel Congresso del 1991 raccolse circa un quarto dei consensi, con punte più alte nei sindacati dell’industria e, in generale, nelle grandi fabbriche. La vicenda della scala mobile restava in attesa di una soluzione. Nel “tormentone” del 1984 (il decreto di S.Valentino) e nel 1985 (il referendum abrogativo promosso dal Pci, finito in una clamorosa sconfitta), Trentin era stato solidale con la sua parte. Ma da persona intelligente non se la sentiva di raccontare in giro che il taglio di quattro punti (poi ridottisi a tre) di indennità di contingenza, maturata nel 1984, costituivano un attacco reazionario alla classe lavoratrice. Del resto, aveva sempre considerato con sufficienza un po’ aristocratica il di certi sindacalisti. Elaborò, allora, la teoria del “vulnus”, secondo la quale il problema risiedeva tutto nell’offesa recata al sistema delle relazioni industriali, poiché il Governo aveva proceduto senza un’intesa che coinvolgesse tutte le organizzazioni sindacali.
La verità era un’altra: la Cgil non avrebbe mai potuto realizzare un accordo contro il parere del Pci, il quale non aveva alcuna intenzione di agevolare l’azione del Governo. Così la Cgil non poteva che essere indisponibile a spendersi nella ricerca di una qualunque soluzione. Tanto che, quando la questione tornò a galla, all’inizio del decennio successivo (dopo che vennero meno le soluzioni legislative che si erano nel frattempo trovate), la posizione ufficiale della Cgil, diretta dall’illuminato Bruno Trentin, era ancora quella per cui si doveva trovare una forma di perequazione automatica delle retribuzioni al costo della vita, al punto da avanzare anche talune soluzioni tecniche.
Il momento della verità venne il 31 luglio 1992. Era presidente del Consiglio Giuliano Amato. La situazione dei conti pubblici era drammatica. Il Governo, da poco costituito, aveva varato all’inizio di luglio una manovra da trentamila miliardi di vecchie lire. Occorreva, però, mandare ai mercati (dominati dalla speculazione) un altro segnale forte. Amato pensò che fosse venuto il momento per chiudere la vertenza sul costo del lavoro che si trascinava da anni, di rinvio in rinvio. Le parti sociali vennero messe alle strette. Amato lasciò intendere che un mancato accordo (tra le altre cose era inclusa anche la scomparsa di qualsiasi meccanismo di rivalutazione automatica dei salari) avrebbe provocato le dimissioni del Governo e innescato una gravissima crisi politica in una fase assolutamente delicata. Si svolse a Palazzo Chigi una tiratissima riunione della segreteria della Cgil in cui si decise, a maggioranza, di firmare. Il giorno dopo, Trentin annunciò le sue dimissioni, motivate dalla circostanza che, sottoscrivendo l’accordo, era venuto meno al mandato ricevuto dagli organi dirigenti. Fu un gesto clamoroso, che tenne vivo il dibattito per tutto il mese d’agosto, durante il quale i dirigenti della Cgil, appartenenti alle diverse componenti e sfumature, si scambiarono polemiche dichiarazioni, da sotto l’ombrellone o dalla baite montane. All’inizio di settembre, mentre la lira precipitava, l’Italia si preparava ad uscire dallo Sme e il Governo aveva in cantiere un’operazione da novantamila miliardi di lire, ebbe luogo, alla Scuola di Ariccia, l’attesa riunione del Consiglio generale della Cgil chiamato ad esaminare l’accordo del 31 luglio e il comportamento della delegazione, inclusa la questione delle dimissioni del segretario generale. La vicenda correva sul filo di un rasoio. Era chiaro, infatti, che l’accordo doveva essere firmato. Trentin era il primo a sostenerlo. Il segretario, però, intendeva consumare una piccola vendetta interna nei confronti di Ottaviano Del Turco, dei socialisti e, forse, anche di qualcuno dei suoi compagni (come Sergio Cofferati). Il suo ragionamento non faceva una grinza, anzi era un vero e proprio sillogismo: in sede della Cgil si era definita una linea di condotta che puntava a conquistare una diversa scala mobile; davanti al Governo e alle altre organizzazioni, invece, io, Bruno Trentin, sono rimasto solo e in minoranza a sostenere le posizioni che fino a poco prima erano comuni. Al dunque, sono stato costretto a firmare per non spaccare l’unità sindacale, mandare in frantumi la Cgil e prendermi la responsabilità di una crisi di Governo nel momento in cui il Paese era in procinto di ‘’depositare i libri in tribunale’’. Devo dire però – proseguiva Trentin – che la Cgil è affetta da un “male oscuro” (anche Giuseppe Berto veniva scomodato) consistente nella mancanza di autonomia. Così Del Turco era servito. Nessuno poteva credere, onestamente, ad una simile ricostruzione dei fatti. Tra l’altro, del tutto inutile, visto che l’esito non era in discussione (perché nessuno era intenzionato a rimangiarsi l’accordo). Eppure, tutti si sbracciarono a magnificare le lodi di cotanto segretario generale, insostituibile, indispensabile, impareggiabile. La discussione durò a lungo. Bruno tenne tutti sulle spine fino all’ultimo. Non gradì il discorso di apertura pronunciato da Sergio Cofferati in tandem con un intervento di tono simile di Fausto Vigevani (altro cavallo di razza della componente socialista, il solo che riuscì poco tempo dopo a dirigere per qualche anno la Fiom). Con una sapiente regia di se stesso, Trentin annunciò il ritiro delle dimissioni soltanto alla fine di un discorso conclusivo (solitamente) lunghissimo.
Ottaviano Del Turco aveva compiuto una scelta consapevole. Sapeva benissimo che la posizione della Cgil era fuori mercato, che non era morta soltanto la vecchia scala mobile (con gli aggiustamenti a cui era stata sottoposta negli ultimi anni), ma qualunque sistema di indicizzazione delle retribuzioni. Ma aveva ritenuto di non impegnare troppo la componente socialista (che non era fatta di eroi e di valorosi, ma di padri e madri di famiglia) in una logorante battaglia preventiva, all’interno della Confederazione. Tanto, pensava, la contraddizione – come poi avvenne – sarebbe scoppiata da sola. Se Trentin voleva accontentare i suoi con una nuova proposta, facesse pure. Anche lui, riteneva Del Turco, sapeva che la partita era persa. Invece, al momento giusto, Trentin gli aveva rigirato la frittata, ricordandogli gli impegni assunti all’interno della Cgil, attribuendogli la responsabilità di un’intesa che era vissuta dal popolo della Cgil come una sconfitta.
Da quel momento, cominciò per Del Turco il count down che lo portò fuori dalla Cgil (nella primavera del 1993). Testimonianze successive hanno fornito nuovi elementi di conoscenza per spiegare quello psicodramma. Un autorevole dirigente del Pds (di quel periodo) ha scritto in un libro che i vertici del partito avevano vietato a Trentin di stipulare accordi con il Governo e che tutta quella messa in scena fu lo stratagemma inventato da Bruno Trentin per salvare capra e cavoli. Logicamente, la circostanza ha avuto la smentita dell’interessato. Ma la spiegazione è più che verosimile: almeno riesce a dare un supporto di razionalità ad una vicenda che altrimenti ne ha avuta ben poca.
Esattamente un anno dopo, Bruno Trentin portò la Cgil a sottoscrivere, con il Governo Ciampi, le altre organizzazioni sindacali e le controparti, il Patto di S. Tommaso (dal nome del Santo celebrato in quel giorno), nel quale, tra i tanti altri argomenti, veniva definito pure un modello di relazioni contrattuali (che non ha dato cattiva prova, che ha normalizzato i rinnovi e contribuito a combattere l’inflazione nel quadro di una politica dei redditi) imperniato su di un sistema a due livelli, nazionale e decentrato, rivolto il primo ad allineare le retribuzioni al costo della vita, il secondo a compensare in parte la maggiore produttività. Negli ultimi tempi, dovette affrontare la diaspora bertinottiana, che lo feriva anche sul piano personale, perché Trentin aveva un’innata simpatia per personaggi come il superFausto (o, per altri versi, come Claudio Sabattini). Forse temeva, in parallelo con quanto era accaduto nell’ex Pci, una possibile scissione della Cgil, che avrebbe creato non pochi problemi delle aziende più grandi e sindacalizzate. Poi, Bruno cominciò a preparare il passaggio di consegne a Sergio Cofferati, che aveva avuto la meglio sull’altro contendente, Alfiero Grandi. Con una scelta discutibile decise di restare in Confederazione. Per alcuni anni è stato una sorta di “convitato di pietra”. Partecipava alle riunioni, diceva la sua, presentava emendamenti. Ma ormai il suo tempo era passato. Poi venne l’elezione “liberatoria” al Parlamento europeo.
A vederlo, Trentin era cambiato anche fisicamente. E’ sempre stato un bell’uomo, atletico, sportivo, elegante, attento ad apparire più giovane della sua età. Lasciata la carica di segretario generale aveva concesso a se stesso di invecchiare. Poi, mentre era in vacanza in montagna, una brutta caduta in bicicletta lo ha condannato dapprima ad uno stato di semi-incoscienza e successivamente alla morte, il 23 agosto del 2007.
Bruno Trentin ha lasciato un segno indelebile nella storia del sindacato italiano. Ha legato la sua opera alle innovazioni più audaci, alle rivendicazioni più significative, alle soluzioni organizzative che hanno cambiato il volto di un certo modo di fare sindacato. I delegati e i consigli di fabbrica, strumenti mitici di un’archeologia industriale; le 150 ore come forma di scolarizzazione di massa; l’inquadramento unico tra operai ed impiegati; il piano d’impresa; la riforma del tfr: un lungo elenco di “scoperte” (non esaustive) sono riconducibili all’inventiva di Trentin. In lui, ovviamente, non tutto era perfetto. Gli si rimproverava, in particolare, di essere una specie di Dio Kronos, divoratore dei figli. Le persone che gli erano più vicine, ne subivano l’influenza culturale. Di Bruno Fernex abbiamo già parlato. Ma ve erano altri come Enrico Galbo, Roberto Tonini, Angelo Airoldi, Marco Calamai, Pietro Marcenaro, Gastone Sclavi, Paolo Franco, Piero Santi, Ada Collidà, Guido Bolaffi, Michele Magno. Tutti giovani colti, brillanti, di “sinistra”, molto legati a Trentin e un po’ sacrificati da lui. In generale, un’intera generazione di giovani sindacalisti subì il fascino di Bruno e godette della sua considerazione. Persino Sandro Antionazzi, che trent’anni dopo fu il candidato della sinistra a sindaco di Milano e che nei tempi di cui parliamo era segretario della Fim milanese, apparteneva alla ristretta cerchia delle persone che “dialogavano”, anche se polemicamente, con Trentin e da lui erano presi in considerazione. Simpatico, colto, buon compagnone, da intellettuale un po’ schizzinoso Trentin odiava gli sport popolari. Era l’unico in Cgil che non seguiva le partite dei campionati del mondo.
Nel 1982, quando tutti si appassionavano per la Nazionale (Lama e Marianetti non si perdevano una partita) che poi vinse i mondiali, Trentin faceva polemicamente il tifo per le squadre avversarie o, quanto meno, sfidava i riti scaramantici dei colleghi tifosi. A Bruno piaceva divertirsi; anche nella fasi politicamente più delicate non rinunciava mai alla qualità della vita. Per lui le ferie erano sacre. Scalatore da roccia, scoprì una nuova via dolomitica, negli anni sessanta, e la chiamò “via Fiom”. Un brillante giornalista come Sergio Turone (prematuramente scomparso) lo definì, in un articolo sul Giorno nell’autunno del 1969, “il guascone che pensa alle Dolomiti”. Fu in assoluto il primo “pezzo” di colore (oggi parleremmo di gossip) dedicato ad un sindacalista: allora suscitò quasi uno scandalo. Di Bruno Trentin erano divertenti le barzellette, che raccontava in dialetto veneto, forse per rivisitare le sue radici. Ad un congresso internazionale provocò un incidente diplomatico con Giorgio Benvenuto. Era il 1982 ed era in corso la guerra delle Falkland. Benvenuto (sulla scia di Bettino Craxi) sosteneva che l’Italia doveva avere comprensione per le ragioni dell’Argentina. Trentin – e questo va a suo merito, perché in quell’epoca nella sinistra circolavano parecchi ragionamenti terzomondisti – non era ostile, nei fatti, alla causa inglese. Nel bel mezzo del Congresso la segreteria fece un annuncio: il signor Benvenuto è desiderato al telefono dalla Casa Rosada. Giorgio sollevò uno scandalo, pretese un’indagine, ricevette delle scuse ufficiali dalla presidenza del Congresso. Non si seppe mai come avesse fatto Trentin a combinare la beffa (si disse che si era avvalso del fedele Bruno Ugolini, il giornalista di fiducia di Trentin per quasi mezzo secolo). E’ certo, però, che l’idea era stata sua.
Alle esequie laiche nel piazzale della Cgil, in Corso d’Italia, alcuni giorni dopo la morte, il 27 di marzo, Giovanna Marini, su invito della moglie Marcelle (Marie) Padovani, cantò Les temps des cerises, We shall over come. Poi tutti intonarono insieme Bella ciao. Così, come termina l’Iliade: “Questi furono gli estremi onori resi ad Ettore, domatore di cavalli”.
Ma la storia non finisce qui. ‘’Un non credente che merita il Paradiso”, un piccolo miracolo. E’ potuto succedere anche questo, un lunedì pomeriggio nel cuore della Capitale, nell’antichissima basilica di Santa Maria in Trastevere. A un mese dalla morte di Bruno Trentin, una messa fu celebrata dal cardinale Achille Silvestrini e dal parroco don Matteo (non quello della saga televisiva). Nell’omelia i prelati ricordarono che l’Onnipotente giudica gli esseri umani soltanto in base alle loro opere. E quelle di Bruno Trentin, in vita, furono sicuramente “opere di Dio”.
Giuliano Cazzola