L’Ugl ha ripreso la sua vita normale. Il grande scontro che si è verificato negli anni passati, dopo l’uscita di scena di Giovanni Centrella, è alle spalle dell’organizzazione. Paolo Capone, il nuovo segretario generale, ormai guarda in avanti.
Capone, siete usciti dai problemi?
Problemi ce ne sono e ce ne saranno sempre. Ma quelli nostri interni organizzativi sono superati. Ormai è fuori solo chi ha deciso di intraprendere strade alternative alla nostra. Adesso si deve seguire un complesso lavoro di ricostruzione di immagine, di autorevolezza, di credibilità adeguate a un’organizzazione che si è trovata in grandi difficoltà ma è riuscita a uscirne indenne. Dobbiamo, con determinazione, impostare il nostro lavoro sulla base delle regole statutarie, senza mai dimenticare gli interessi che rappresentiamo: quelli dei lavoratori, dei pensionati, di chi vorrebbe un lavoro ma non ce l’ha.
E parallelamente avete ripreso anche il confronto con il governo.
L’esecutivo di Renzi non è mai stato particolarmente attento al dialogo sociale, ma questo si è comunque in qualche modo riaperto, e noi siano stati presenti a tutti i tavoli di discussione: le pensioni, la ricostruzione dopo il terremoto, la riforma della pubblica amministrazione, l’avvio di Industry 4.0. Ci siamo a pieno titolo, assieme alle altre grandi organizzazioni sindacali. Possiamo dire che siamo davvero la quarta gamba della rappresentanza dei lavoratori.
Questa riappacificazione interna vi è costata qualcosa sul piano delle strategie?
Assolutamente no, siamo sempre stati attenti a mantenere i nostri caratteri originali, primo tra tutti l’adesione al principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, così come sancita dall’articolo 46 della Costituzione.
Un obiettivo non solo vostro.
Noi siamo fedeli a questo credo fin dagli anni 50. Le altre organizzazioni sindacali vi si stanno avvicinando, e questo è importante. Perché con la diffusione delle pratiche partecipative si può cambiare radicalmente le relazioni industriali, passando dalle scelte di classe di stampo marxista alla collaborazione.
Però ci sono molte resistenze.
Sì, soprattutto tra gli imprenditori, che non vogliono si sposti l’asse della contrattazione verso la partecipazione e quindi l’azienda.
Voi siete per dare spazio alla contrattazione in azienda?
Il contratto nazionale resta centrale, una cornice a difesa dei diritti inalienabili dei lavoratori, ma il cuore della negoziazione nella nostra visione si sposta verso il secondo livello. Del resto la partecipazione prevede un confronto tra lavoratori e imprese proprio nella sede aziendale.
Perché queste resistenze?
Perché spostare l’asse della contrattazione comporta una perdita di potere per le organizzazioni centralistiche e una crescita del ruolo dei quadri di base che devono essere in grado di confrontarsi con le imprese su temi non semplici.
Eppure la diffusione della partecipazione interessa da vicino il mondo delle imprese dato che è così che può crescere la produttività.
Gli imprenditori italiani preferiscono puntare su una crescita di produttività che avvenga senza coinvolgere nel processo decisionale i lavoratori. Un comportamento miope di chi è prigioniero del vecchio modello di relazioni industriali, di chi è legato a teorie del secolo scorso.
Gli altri sindacati credono nella concertazione?
Ci sono aperture in questo senso nel documento che Cgil, Cisl e Uil hanno messo a punto a gennaio e poi consegnato a Confindustria e alle altre organizzazioni datoriali. Ma la declinazione di quei principi è piuttosto indietro rispetto a quanto prevede l’articolo 46 della Costituzione.
A suo avviso è possibile prevedere una svolta?
Sarebbe auspicabile una vera riforma, tanto più che continuiamo a essere in crisi. Ed è proprio nei momenti di maggiore difficoltà che sarebbe più importante coinvolgere i lavoratori con pratiche partecipative. In Germania questo sistema ha prodotto grandi risultati proprio nel periodo di maggiore contrazione dei mercati.
Nella trasformazione della struttura contrattuale è giusto a suo avviso puntare su contratti di filiera e territoriali?
Non credo che quei modelli abbiano molto senso. Se il rapporto partecipativo è legato alla realtà aziendale potrebbe essere dannoso puntare su ambiti più ampi. Come si può intervenire sulla realtà se i problemi delle diverse aziende della stessa filiera o dello stesso territorio sono diversi?
Lei cosa propone?
Credo che possa avere successo un contratto di comunità che leghi l’impresa ai lavoratori e al territorio. Sarebbe una vera rivoluzione che cambierebbe i rapporti tra azienda e lavoratori, ma unirebbe insieme i destini del capitale, del lavoro e del territorio, partendo dalla responsabilità sociale delle imprese. Si tratterebbe di coinvolgere nelle contrattazioni anche il territorio, nelle persone che lo governano e che in quanto tali sono portatori di interessi specifici, non necessariamente in conflitto con quelli dei lavoratori e delle aziende.
E’ molto che si parla della responsabilità sociale dell’impresa.
Sì, ma non si è andati più in là delle parole. Adesso è venuto il momento di riprendere questo concetto e coniugarlo nelle sedi contrattuali per armonizzare i diversi interessi in gioco.
Questo cambierebbe il mestiere del sindacato?
E’ sempre più necessario avviare processi di consapevolezza e formazione che consentano ai rappresentanti di base del sindacato di trattare non solo le vertenze individuali, mettendoli nella condizione di portare avanti vertenze collettive che coinvolgano appunto le persone, le imprese, il territorio.
Ma il sindacato è pronto a questa trasformazione?
Noi dell’Ugl ci crediamo.
Massimo Mascini