Anche questa volta, come nelle altre vicende politiche che si stanno succedendo in tutto il mondo, da ultima la Brexit, “l’incredibile, l’indicibile, l’impensabile, l’imprevedibile, l’impossibile” è accaduto: il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America sarà Donald Trump, il più conosciuto compendio di tutti i vizi di “rentier” capitalista, fondamentalmente razzista, speculatore nato ricco che disprezza le donne e tutti i diversi da lui, noto evasore fiscale che non rende pubblica la sua denuncia dei redditi, eccetera.
Uno che ha fatto una campagna elettorale dai toni accesamente populisti, che ha parlato alla pancia dell’America profonda, che ha seminato rabbia e odio, affermando che avrebbe costretto i messicani a costruire il loro muro di contenimento o che avrebbe impedito ai musulmani di entrare negli US. E che però, come ha sostenuto Paul Krugman sul New York Times, è un fenomeno venuto da lontano: dal tralignamento politico e dagli eccessi tollerati e incentivati dal G.O.P (grande vecchio partito: quello repubblicano) il quale, da tempo, si è messo sotto i piedi i valori, le regole non scritte, le istituzioni di quella che si vantava di essere l’esempio più illustre di liberal-democrazia. E ci tengo qui chiarire che questi giudizi non sono miei personali: li ho tratti dai tanti articoli e commenti letti nei mesi scorsi, sulla stampa internazionale mainstream.
Le cose stanno davvero così? Certamente. Ma c’è dell’altro. Qualcosa di più profondo sta consumando non solo la democrazia americana ma i fondamenti della convivenza civile che hanno caratterizzato l’occidente dopo le drammatiche vicende della prima parte del secolo scorso. La metterei così: dopo gli anni della crescita economica e della diffusione del benessere come non si era mai verificata nella storia dell’umanità, della riduzione della disuguaglianza, della piena occupazione, degli avanzamenti scientifici che hanno migliorato la qualità dell’esistenza umana, debellando malattie e allungando l’aspettativa di vita, della rivoluzione tecnologica che ha portato alla produzione di massa di beni di consumo, dei tassi crescenti di scolarità, della costruzione di istituzioni e prestazioni sociali dalla culla alla tomba – come si diceva a proposito soprattutto delle democrazie del nord Europa- dopo la golden age, a partire dagli anni ’70 del ‘900, tutto è cominciato a cambiare.
La signora Thatcher in Gran Bretagna spiegava ai suoi concittadini e al mondo che si stavano crogiolando troppo nella pigrizia e nell’ozio, che lo Stato era troppo di manica larga (e, soprattutto, si impicciava di troppe cose), che il sindacato era troppo potente. Ronald Reagan, negli USA, spiegava a sua volta che le tasse erano troppo alte, che -anche lì- lo Stato era troppo invasivo e che gli individui, da soli e senza delegare a organizzazioni di rappresentanza collettiva, erano in grado di affrontare e risolvere meglio i loro problemi esistenziali.
Insomma, società con troppi “troppo”, che avevano perso smalto, vigore e competitività. Con una interpretazione pro domo loro di Adamo Smith, affidandosi alla mano invisibile del mercato, hanno gettato le fondamenta di una nuova dottrina, che si è ben presto trasformata in ideologia, anzi in pensiero unico. Questo, noto come “Washington Consensus”, ha stravolto le regole del “buon governo” invalse fino a quel momento, permeando la cultura accademica e l’insegnamento universitario. L’imperativo categorico è così diventato quello di liberalizzare e deregolamentare l’attività economica e finanziaria, di ridurre le tasse costruendo codici fiscali su misura dei più ricchi, di tagliare di conseguenza la spesa pubblica per servizi sociali e investimenti infrastrutturali.
Tutto ciò ha avuto conseguenze di non poco conto, anche se le cose non sono andate esattamente come i cantori della globalizzazione neo-liberista avevano immaginato. Il mondo non è migliorato, l’economia e il benessere sociale non sono aumentati, al contrario tutto è andato peggio per le persone normali e c’è poco da stupirsi se queste, spaventate e arrabbiate, reagiscono punendo nelle urne quelli che ritengono gli artefici del peggioramento delle condizioni della loro vita: cioè i partiti e i politici mainstream, senza più troppe distinzioni tra destra e sinistra.
In estrema sintesi, ecco cosa e’ accaduto in questi anni, e cosa ha portato, come naturale conclusione, alla vittoria di Trump.
Primo, lo smantellamento normativo ha alimentato una globalizzazione del movimento dei capitali alla ricerca del massimo rendimento, che ha ristretto al brevissimo termine gli orizzonti temporali degli investimenti, nei fatti svincolandoli sempre di più dall’economia reale e determinando nel contempo una forte instabilità in tutto il mondo, quello sviluppato, quello emergente e quello in via di sviluppo. La gara per l’attrazione dei capitali stranieri si è fatta selvaggia, incentivando il dumping fiscale tra gli Stati persino all’interno della stessa area economica, come dimostrano i paradisi fiscali nel cuore dell’Europa e le pratiche delle grandi multinazionali, soprattutto americane, che utilizzando i diversi regimi tra loro in competizione e le tante scappatoie offerte dal sistema fiscale del loro paese, sono sempre a caccia del trattamento migliore, che spesso si avvicina a “zero tax”.
Gli amministratori delegati delle grandi banche internazionali sono diventati i nuovi Re Creso, ma è stata proprio la struttura dei loro compensi, basata su premi di risultato che assomigliano a PIL di piccole nazioni, ad alimentare, anche con l’ausilio delle tecnologie informatiche, una crescita abnorme e sconsiderata di strumenti finanziari tossici e di un sistema finanziario-ombra che ha portato alla crisi globale del 2008-09.
Da questa gravissima crisi le economie del mondo non si sono ancora riprese, malgrado gli onerosissimi salvataggi di Stato delle banche e dei settori finanziari. Oggi si parla apertamente di “stagnazione secolare”, e si sostiene che difficilmente l’economia globale potrà tornare ai ritmi dei primi anni del millennio. E’ facile immaginare, dunque, con quale stato d’animo i giovani americani e le loro famiglie si carichino oggi di debiti sempre più onerosi per pagare tasse universitarie sempre più elevate aspirando a salire sull’ascensore sociale, consapevoli tuttavia che tale ascensore è invece fermo per guasto di impianto.
Secondo, lo smantellamento normativo è stato a senso unico. All’insegna della crescita della produttività, si sono imposti: una deregolamentazione, in alcuni casi selvaggia, delle leggi sul lavoro, che ne ha ridotto diritti e tutele; un secco ridimensionamento o addirittura la delegittimazione della contrattazione collettiva sulle condizioni economiche e salariali del lavoro dipendente, un’aggressione alle organizzazioni di rappresentanza del lavoro stesso, cioè ai sindacati, fatta attraverso il cambiamento di vecchie leggi o addirittura la scrittura di nuove, esplicitamente antisindacali.
I mercati del lavoro si configurano oggi come luoghi primitivi, in cui vige la legge del più forte: tipologie contrattuali si sovrappongono a tipologie contrattuali, attenuando o cancellando formalmente il concetto giuridico di dipendenza, ma in realtà liberando i datori di lavoro dalle responsabilità del loro ruolo. Il “platform capitalism” è la forma più estrema di questo percorso ma non è peggio delle altre numerose forme di sfruttamento.
Però, a superamento avvenuto dei famosi “lacci e laccioli” che avrebbero impedito il libero dispiegarsi delle forze del mercato, oggi non è affatto vero che tale mercato sia libero. Anzi, è vero il contrario. E infatti, la tutela garantita alla proprietà intellettuale ne fa la prima fonte di rendita. Oltre ogni limite, perchè dietro una scoperta tecnico-scientifica c’è una quantità di ricerca pubblica di base, finanziata con le tasse pagate da tutti, i cui ritorni vanno solo a chi si assicura la conquista dell’ultimo pezzetto della scoperta: questo vale per tutti i titani della moderna economia della conoscenza, quelli la cui capitalizzazione di borsa non ha più alcun lontano rapporto con l’occupazione impiegata, e vale per tutte le più moderne forme dell’organizzazione capitalistica.
C’è di più: negli ultimi anni, soprattutto in alcuni settori, è enormemente cresciuta la concentrazione dimensionale delle imprese: pochi colossi giganteschi controllano l’intero mercato, ad esempio alimentare o farmaceutico. E questo, arricchisce il mercato o lo deprime fino ad annullarlo? Si dovrebbe pensare, a questo punto, che i governi siano corsi ai ripari. Tutto il contrario, continuano a incentivare queste pratiche con leggi e accordi commerciali internazionali compiacenti: vedi la storia del CEDA, del TTIP e del TTP. Dunque il mercato vale solo per i poveracci, ma il fatto è che questi poveracci sono cresciuti di numero. Come spiegarsi questi paradossi? Gli americani una risposta ce la hanno ed è il “big money”, l’influenza in politica dei grandi interessi economici attraverso forme di lobbysmo sempre più esasperate o attraverso il sistema delle “revolving doors”, le porte scorrevoli tra occupazione nell’alta finanza e ruoli all’interno della pubblica amministrazione, o attraverso il finanziamento dei singoli candidati o partiti.
Per tornare a Trump, e, aggiungerei, a Hillary Clinton, le famiglie americane medie hanno visto negli ultimi 30 anni ristagnare il loro reddito. Per mantenere il precedente livello di vita si sono indebitate. Quando la bolla finanziaria è scoppiata non hanno più potuto farlo e anzi si sono trovate costrette a ripagare i debiti cui erano state troppo allegramente incentivate. Metà della popolazione non è in grado di fare risparmi pensionistici e quindi sarà destinata a una vecchiaia di indigenza. Il debito degli studenti è cresciuto esponenzialmente e al tempo stesso non c’è più garanzia che un livello di istruzione universitaria apra la strada a una remunerazione più alta. Anzi, anche in considerazione dell’evoluzione tecnologica – robotica, intelligenza artificiale ecc – è vero il contrario.
I loosers, i perdenti della globalizzazione, sono tanti dunque e giustamente arrabbiati, mortificati e allarmati. E hanno espresso un voto di protesta: lo hanno fatto i blue collars bianchi della rust belt, lo hanno fatto tutti coloro che si sentono in pericolo e cercano protezione, dall’immigrazione, dalla merci cinesi, dalla chiusura delle miniere di carbone, da tutto quello che, da fuori, può mettere ulteriormente a repentaglio la loro situazione. Purtroppo si accorgeranno che le cose non andranno meglio: Trump ridurrà ulteriormente le tasse per i ricchi, compensando loro con qualche misura protezionistica che non servirà a cambiare il corso reale delle cose.
Per cambiarlo tale corso ci vorrebbe ben altro. Ci vorrebbe la buona politica, la dialettica delle idee, l’empatia e la comprensione. Finchè i partiti appartenenti alle famiglie storiche che hanno sempre assunto responsabilità di governo sulla base dell’alternanza, continueranno a rimanere chiusi nel loro palazzo d’inverno, rinunciando a immedesimarsi con la persone normali, a governare sulla base dei loro valori identitari e delle strategie che ne scaturiscono, sarà inevitabile che il vento gonfi le vele del peggior populismo. Non sarà un bel vedere. La storia non si ripete, ma la destra peggiore può assumere anche il volto della modernità e, pur tuttavia, resta sempre la destra peggiore.
Nicoletta Rocchi