Non è facile immaginare quale influenza il nuovo contratto dei metalmeccanici potrà avere sulle trattative per la definizione di un nuovo sistema di relazioni industriali; trattative che dovrebbero iniziare a breve fra Cgil, Cisl e Uil, da una parte, e Confindustria dall’altra. A dirla tutta, non è neppure facile immaginare quale effetto il nuovo contratto potrà avere nella regolazione delle relazioni sindacali nel concreto della vita delle imprese metalmeccaniche.
A una prima lettura delle 43 pagine su cui è steso l’accordo, raggiunto a Roma sabato 26 novembre, si ha però una duplice impressione. Primo, che si tratti di un accordo veramente innovativo. Secondo, e per conseguenza, che si tratti di un accordo più ambizioso di quanto possa apparire a prima vista.
Cominciamo dal carattere innovativo dell’accordo. Carattere che non è stato ancora recepito dal mondo dell’informazione, salvo eccezioni quali il commento di Dario Di Vico pubblicato sul “Corriere della Sera” di domenica 27. Notiziari, radiofonici e televisivi, e poi la carta stampata, si sono sforzati di presentare questo contratto come un accordo che, a regime, darà un tot di euro in più ai metalmeccanici. Ma, come il Diario del Lavoro ha già osservato, questo accordo è stato impostato in base a una logica almeno parzialmente diversa da quella seguita tradizionalmente dalla contrattazione collettiva. Il contratto in sé non fissa quindi una cifra media di aumento delle retribuzioni, sia pure scadenzato in un dato periodo, ma un nuovo rapporto tra i due livelli della contrattazione.
In base all’accordo del 26 novembre, infatti, viene definita quella che potremmo chiamare come una specializzazione dei due livelli. Al primo livello, quello del contratto nazionale, viene assegnato il compito di difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni, mentre solo il secondo, quello aziendale, potrà far crescere tale potere, determinando quindi un eventuale arricchimento reale dei lavoratori.
L’accordo stabilisce infatti che ogni anno, a partire dal mese di giugno, i minimi contrattuali cresceranno proporzionalmente alla crescita dell’inflazione verificatasi nell’anno precedente. Perché da giugno? Perché a maggio l’Istat rende noto quale è stato l’andamento dell’inflazione nell’anno precedente; andamento misurato in base all’indice Ipca (Indice dei prezzi al consumo), depurato dell’inflazione importata a causa della eventuale crescita dei prodotti energetici. In sostanza, la crescita dei prezzi verificatasi nel corso di una dato anno, sarà recuperata dalle buste paga dei metalmeccanici a partire dal giugno dell’anno successivo. Si tratterà dunque di un recupero ex-post, che impedirà il verificarsi di scostamenti in alto o in basso rispetto all’andamento dell’inflazione reale.
Unica cifra fissa definita nel contratto, un’una tantum di 80 euro lordi, erogata nel 2017 a compensazione del fatto che i salari contrattuali, nel corso del 2016, sono rimasti invariati rispetto ai livelli del 2015.
Fin qui, dunque, abbiamo parlato di aumenti del salario nominale che, nel migliore dei casi, ovvero nel caso in cui non vi sia inflazione importata per la crescita del prezzo del petrolio o di altri prodotti energetici, potranno recuperare appieno una crescita dei prezzi al consumo già consolidatasi nei mesi precedenti.
Nel nuovo sistema, quindi, una eventuale crescita del potere d’acquisto dei metalmeccanici è demandata solo alla contrattazione aziendale. Contrattazione che dovrà definire, peraltro, solo premi di risultato interamente variabili. Altrimenti, tali premi potranno essere assorbiti, ad eccezione della parte eventualmente eccedente, dalla crescita dei minimi contrattuali sopra descritta.
In che senso questo schema è innovativo? E perché le parti, dopo una trattativa durata un anno e tre settimane, hanno potuto adesso accordarsi su questo schema?
Per rispondere a questa domanda, bisogna tenere presenti un paio di cose. Primo punto. Fin dall’inizio di questa trattativa, apertasi a Roma il 5 novembre del 2015, si era capito che sarebbe stata particolarmente difficile perché era destinata a svolgersi in un quadro non più contenuto entro la cornice di un assetto regolato di relazioni contrattuali. Infatti, il precedente accordo interconfederale sul sistema contrattuale era ormai scaduto, mentre quello nuovo non era neppure alle viste. Secondo punto. Fin dall’incontro del 22 dicembre 2015, quello in cui Federmeccanica e Assistal presentarono la loro contro piattaforma, si era capito che il nodo centrale di questo contratto era appunto quello del rapporto fra contrattazione di primo e di secondo livello, rispetto alla determinazione degli eventuali aumenti salariali.
Ebbene, con l’accordo del 26 novembre i sindacati confederali della categoria, ovvero Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil, hanno ottenuto la sopravvivenza del sistema contrattuale basato su due livelli, cosa per essi irrinunciabile. D’altra parte, Federmeccanica e Assistal hanno ottenuto l’affermazione di un principio non evocato nel corso di questo negoziato, ma ripetutamente citato nella storia delle relazioni sindacali della categoria. Stiamo parlando del principio condensato in quell’antico brocardo che recita “Ne bis in idem”. Non due volte rispetto allo stesso argomento. E infatti, in base al nuovo contratto, fino alla fine del 2019, vi sarà difesa dall’inflazione solo nel primo livello, e redistribuzione della maggiore ricchezza prodotta solo al secondo livello.
Per i sindacati, l’esistenza dei due livelli è decisiva perché sanno che, come attesta Federmeccanica, la contrattazione aziendale si esercita, di fatto, solo nelle aziende medio-grandi, cioè in quelle in cui è impiegato il 70% della categoria. Senza la protezione del contratto nazionale, le buste paga di un terzo dei metalmeccanici sarebbero destinate a subire nel tempo un sicuro assottigliamento.
D’altra parte, liberatesi da qualsiasi riferimento a quell’andamento medio di settore, che era invece contemplato dal Protocollo del 23 luglio 1993, le imprese saranno chiamate a far salire le retribuzioni dei propri dipendenti, oltre i minimi contrattuali determinati dall’inflazione pregressa, solo quando le imprese stesse abbiano già prodotto una quantità tale di nuova ricchezza da consentire loro di poterne ridistribuire una parte senza eccessive sofferenze.
Così descritto, ci troveremmo di fronte a un sistema che garantirebbe le imprese, ma sarebbe piuttosto avaro con i lavoratori. Di qui la proposta, avanzata a suo tempo da Federmeccanica e Assistal, di far crescere per altra via i redditi dei metalmeccanici. Un’altra via che si chiama welfare contrattuale e che consente alle imprese di offrire ai propri dipendenti determinate quantità di ricchezza tanto più gradite in quanto non colpite dalle imposizioni fiscali così come accade invece alle erogazioni salariali.
Ecco dunque il welfare nel contratto nazionale: primo, crescita dall’1,6 al 2% della retribuzione del contributo che le imprese versano per ogni dipendente al fondo Cometa, quello che assicura la previdenza complementare dei metalmeccanici. Secondo, estensione a tutti i metalmeccanici, e ai loro familiari (anche conviventi), delle prestazioni di sanità integrativa fornite da Meta Salute. Terzo: affermazione del diritto soggettivo dei lavoratori alla formazione professionale. A tale fine, le imprese che non dovessero organizzare propri corsi di formazione dovranno mettere a disposizione dei propri dipendenti fino a 300 euro nel triennio affinché essi possano provvedere scegliendo dei corsi extra-aziendali.
Ma ecco anche il welfare aziendale. Ovvero forme di welfare assunte, e quindi diversificate, a livello aziendale, ma in base a quantità definite dal contratto nazionale. Si tratta dei cosiddetti flexible benefits, buoni detassati che saranno messi a disposizione dei dipendenti per sostenere spese specifiche (rette di asili nido, libri scolastici, spese di trasporto compresi buoni benzina, etc.). Buoni che dovranno essere pari a un importo di 100 euro nel 2017, 150 euro nel 2018 e 200 euro nel 2019.
L’accordo del 26 novembre, definisce quindi un nuovo rapporto tra i due livelli contrattuali che, differenziandone la funzione, finisce per rafforzarli. Ciò risulterà ancora più evidente gettando uno sguardo alle parti non salariali del contratto che disegnano anche nuovi intrecci fra i due livelli.
Per quanto riguarda l’inquadramento professionale, il nuovo contratto demanda alla contrattazione aziendale la facoltà di sperimentare nuovi schemi; questi ultimi dovranno poi costituire la base per una proposta, elaborata da un’apposita commissione, che dovrà poi essere la base di un nuovo inquadramento da inserire nel prossimo contratto nazionale.
A ciò si aggiunga che il nuovo contratto nazionale assegna ruoli particolarmente significativi, a livello aziendale, alle Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) per ciò che riguarda la gestione degli orari flessibili e agli Rls (Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) per costruire misure di prevenzione rispetto alla nocività e alla rischiosità degli ambienti di lavoro.
Resta da dire qualcosa sulle ambizioni di quest’accordo contrattuale. Ambizioni che sembrano condensarsi in quella di creare un nuovo clima, meno conflittuale, nella vita quotidiana delle imprese. Un clima in cui le imprese si assumano veramente il compito di scommettere sulla qualificazione dei propri dipendenti, avendo compreso che quel complesso di fenomeni economici, sociali, tecnologici e produttivi che va sotto il nome di Industria 4.0 richiede l’impegno cooperativo e consapevole di gruppi dirigenti e di lavoratori dotati delle competenze necessarie ad affrontare la competizione globale.
Questo clima può essere creato insieme da sindacati e imprese. Ma la responsabilità di creare tali competenze crediamo ricada essenzialmente sulle imprese. E’ bene che il contratto riconosca la formazione continua come un diritto soggettivo dei lavoratori. Meglio sarebbe se le imprese si convincessero del fatto che tale formazione può costituire per loro una risorsa decisiva.