Vi sono due culture delle relazioni industriali opposte fra loro che sembrano tranquillamente convivere, sia all’interno delle imprese che fra i sindacati. Forse anche fra le forze politiche e gli studiosi della materia. La prima fa riferimento all’innovazione, a ciò che si sta modificando nell’economia, nell’industria, nella manifattura, in Italia e nel mondo, attraverso le interrelazioni tra intelligenza artificiale e produzione di merci e servizi. In sintesi: come la quarta rivoluzione industriale trasformerà l’impresa (nelle sue componenti di capitale e lavoro) e quindi anche le relazioni industriali.
La seconda sembra voler portare a compimento una stagione antagonista tra capitale e lavoro immaginando, da parte delle imprese, che solo la fine della contrattazione collettiva o il suo forte ridimensionamento, con le conseguenze di una totale liberalizzazione delle regole (salario, orario, diritti) possano far crescere la produttività e liberare le risorse economiche per fronteggiare la globalizzazione.
La prima considera che le difficoltà e le potenzialità del mercato globale debbano essere affrontate da una nuova cooperazione tra lavoratori e imprenditori nel dare più valore ai prodotti e ai servizi. La seconda presuppone la subalternità del lavoro alle scelte univoche dell’impresa e un doveroso adeguarsi del sindacato a questo squilibrio delle relazioni industriali.
Anche l’analisi di come sta cambiando il lavoro vede una forte polarizzazione delle interpretazioni tra chi ne coglie solo la parte povera (di diritti e di salari) e chi si immagina un lavoro talmente professionalizzato e autonomo da non avere più bisogno, per difendersi, di una rappresentanza collettiva.
Fin qui ci si potrebbe immaginare una normale dialettica fra soggetti e punti di vista diversi, tra differenti “scuole” di pensiero sindacale che vivono nel mondo della rappresentanza delle imprese e del lavoro. Il quadro delle contraddizioni si arricchisce se si pensa che mai come in questa stagione, dopo molti anni di stallo, si stanno chiudendo contratti ed accordi (ovviamente collettivi) che, pur senza un quadro di riferimento generale condiviso, sembrano tornare al “comune buon senso” della contrattazione: fatto di incrementi salariali non simbolici, controlli degli orari e dei livelli di inquadramento, benefit di varia natura.
Non sembri una caricatura delle posizioni in campo. In alcuni recenti momenti di discussione e di approfondimento sul tema si è parlato di una sorta di “dislessia”, cioè di una sindrome di difficoltà dell’apprendimento i cui si riconoscono i particolari ma non l’insieme di ciò che si legge. In altre discussioni è parsa evidente una sorta di “sindrome dissociativa” tra le nostalgie del recente passato e ciò che quotidianamente si vive.
Per la componente sindacale sta per aprirsi una stagione congressuale in cui è possibile e necessario produrre una nuova sintesi che superi il dualismo descritto. Ma sarà arduo avviare una nuova fase delle relazioni se anche le organizzazioni imprenditoriali non supereranno le loro contraddizioni interne, dandosi almeno una lettura condivisa delle tendenze in corso, se non una piattaforma unica.
All’inizio abbiamo nominato la politica. Quella italiana si è improvvisamente resa conto di quanto, negli ultimi anni, si sia allontanata dei problemi sociali e del lavoro. O meglio, la caduta repentina di consenso ha misurato una distanza tra politica e società che non sappiamo quanto i populismi (di destra e di sinistra) che dominano la scena intendano colmare. Anche in questa parte del campo delle relazioni industriali sarebbe necessario un pensiero nuovo, almeno a sinistra. Speriamo.