Quello che si apre sembra un anno che sfugge a semplice definizioni. Chi si sbilancia in previsioni non va oltre la convinzione che non sarà un anno nel quale ci si annoierà. Ma potrebbe essere anche un pronostico non privo di pericoli. Intanto perchè sulla scena mondiale si comincerà a misurare il peso (e la direzione) della Presidenza Trump ed i cui orientamenti peseranno sull’Europa attraversata per giunta da venti elettorali e, se verrà confermata la vena protezionista, sulle sorti dell’export verso gli Usa che resta uno dei nostri capisaldi. C’è anche chi ritiene che l’anno appena iniziato giocherà le sue fortune principalmente su tre tavoli: inflazione, debito, protezionismo appunto. Ad ammonire tutti sui comportamenti da tenere campeggia un dato assai poco tranquillizzante: il debito mondiale è salito ad un nuovo record pari al 325% del Pil globale, 217mila miliardi di dollari. Perfino l’angoscioso nostro debito pubblico che tarpa le ali agli investimenti pubblici finisce per diventare un “oggetto da microscopio”.
Le conseguenze di queste constatazioni ci condurrebbero verso un prima osservazione di fondo: se lo scenario, sia pure appena abbozzato, è questo viene da sé il pensare che occorrerebbe una risposta europea sul piano economico e sociale molto forte ed univoca. Mentre il malessere dei popoli del vecchio Continente continua a lievitare e spinge i Governi, soprattutto quelli decisivi per il futuro europeo, a difendersi dal montare delle proteste che nascono dai problemi dell’immigrazione, del ruolo dell’euro, del clima di incertezze che continua ad aggravare le diseguaglianze.
Di conseguenza mentre si avverte acuta la necessità di un governo europeo dell’economia, dovremo continuare a fare i conti con le scelte nazionali in una fase storica nella quale le forze politiche tradizionali non solo hanno visto impallidire la loro identità ideale, ma accusano una perdita di credibilità fra i cittadini mai così accentuata da decenni.
Se osserviamo da vicino ad esempio l’evoluzione dell’inflazione ci accorgiamo quanto sia complicato far quadrare il residuo (ma non residuale) rigore sui conti pubblici con l’esigenza di accelerare la crescita ancora troppo timida e discontinua. Se, ad esempio, in corso d’anno la Bce dovesse ridurre il flusso del QE, ovvero della liquidità, con un rialzo dei tassi di interesse (magari dando un colpo di cappello alle preoccupazioni della Merkel), per l ‘Italia si porrebbe subito la questione del reperimento delle risorse pubbliche necessarie per far fronte a tale cambiamento, con il rischio reale di ridurre lo sforzo verso lo sviluppo. Ma al tempo stesso potrebbero verificarsi conseguenze negative sui consumi e su salari e stipendi, innescando possibili rincorse fra prezzi e retribuzioni di cui si era persa la memoria. La stessa strategia contrattuale potrebbe essere investita da queste novità, che potrebbe condizionare in primo luogo gli orientamenti della contrattazione di secondo livello.
Ed il debito? Finirebbe ancora una volta per diventare la spada di Damocle sull’azione del Governo, con il fiato sul collo di Bruxelles praticamente certo e non facile da calmare.
Quanto all’ondata protezionista, essa potrebbe intrecciarsi con il rimescolamento delle alleanze internazionali (Stati Uniti certo, ma anche Cina e Russia tanto per citare due colossi smaniosi di dire la loro), rimarcando le debolezze dell’Europa in attesa di capire finalmente quanto sarà condizionata dalla Brexit e di valutare gli effetti della sua disunione sui problemi più critici. Un’Europa che resta inoltre esposta ai colpi del terrorismo anche se la volontà di respingere la cultura del terrore finora è prevalso e va dato atto di questo sia agli Stati che ai cittadini.
Da noi le direttrici di marcia del 2017 sono soprattutto due: l’instabilità politica da evitare (un’impresa che potrebbe trasformarsi in una inutile fatica di Sisifo), le oscillazioni dell’occupazione mentre si esauriscono gli incentivi e resta altissima l’emergenza della disoccupazione giovanile.
Sul primo punto scontiamo come al solito una situazione paradossale: un Governo che rischia di rinverdire il ruolo di.Re Travicello si trova a gestire una legge di stabilità tutta protesa verso la crescita. Con alle spalle segmenti disordinati e disomogenei di riforme fatte, abbozzate, congiunturali, che non sono certo il miglior viatico per puntare in alto.
Non aiuta neppure, diciamo la verità, la dialettica politica che ondeggia fra sponde mediocri di rassicurazioni che cadono nel vuoto e di profezia di sventura che fanno crescere non tanto la voglia di partecipazione e di impegno quanto la disillusione ed il disagio.
Eppure non c’è altra via che quella di reagire alla rassegnazione. E in questo senso l’impegno sindacale e delle forze sociali potrebbe essere un fattore di controtendenza di grande valore. Finora lo sforzo delle forze politiche genericamente riformiste è stato quello di disegnare prospettive favorevoli non in sintonia con il sentire della gente. Riducendo in tal modo anche l’area del consenso alle politiche che si cercano di portare avanti e che avendo bisogno di tempo non saranno mai popolari se chi le interpreta, Governo e partiti, non risulteranno credibili. Ricostruire il senso di una politica che sappia progettare interventi in grado di farci uscire da questa palude economica e sociale pericolosa può essere uno dei compiti più importanti per sindacati ed imprese per un verso, per l’intero universo sociale per un altro, vale a dire quello di ricaricare le ragioni della speranza e quelle di una partecipazione solidale nei territori, fra le generazioni, fra il mondo produttivo e la società.
Altrimenti dovremo incamminarci verso un anno “elettorale” nel quale poco si farà sul piano del lavoro e della ripresa dell’economia reale, mentre finiranno per crescere tensioni sociali senza sbocco. Ancora una volta possiamo dire che segni di vitalità il nostro Paese continua a darli e non vanno ignorati. Ma vanno supportati da una iniziativa che deve crescere di intensità e di qualità propositiva. Dobbiamo continuare a credere che sia essenziale fare tutto quello che è nelle nostre disponibilità per impedire che il Paese si sottometta alla deriva politica ed economica. Solo un Paese in grado di mostrare di aver idee chiare può a sua volta provare ad esercitare una pressione positiva perché l’Europa a sua volta respinga le sirene della disgregazione.
Non è un percorso facile, tutt’altro. Sicuramente è tutto in salita, ma tentar non nuoce. Del resto il nostro è un Paese strano assai: frenano i consumi, il risparmio viene concepito come un’ultima spiaggia poi si scopre che si spendono ben 95 miliardi, ovvero il 4,4% del Pil nazionale, in giochi e scommesse. Si tenta la sorte, ma non c’è sufficiente determinazione nel piegare la sorte ad un futuro diverso. E invece la via maestra dovrebbe essere proprio questa.