Il 2016 doveva essere per Confindustria l’anno in cui i rinnovi contrattuali sarebbero dovuti essere subordinati alla definizione di un nuovo modello dopo l’esaurirsi (come in parte era scontato) di quel non modello figlio dell’accordo separato del 2009.
Un non modello per tante ragioni, ultima delle quali il fatto che poi la pratica unitaria dei rinnovi (con esclusione del contratto metalmeccanico) ne registrò di fatto un superamento.
Ancora oggi diversi importanti rinnovi contrattuali devono chiudersi (a partire dal pubblico impiego e dall’edilizia) ma certo il 2016 ha visto raggiungere importanti intese che, anche per diversità sul tema del rapporto tra 1° e 2° livello di contrattazione, diversità nel trattare i temi salariali, del welfare o dell’organizzazione del lavoro, mi fanno dire che la strategia iniziale di Confindustria è uscita sconfitta e che al confronto per definire un modello (se possibile) con Viale dell’Astronomia, ci si arriva non solo con importanti intese con Artigiani, Confcommercio, piccole imprese ma anche con un oggettivo ventaglio di opzioni contrattuali che non predeterminano un esito scontato del confronto.
Ritengo che abbia pesato molto (più di quanto si voglia ammettere o abbiamo colto diversi osservatori) l’aver praticato (o almeno averci provato) il Documento Unitario di Cgil Cisl e Uil del Gennaio 2016 proprio su un nuovo modello contrattuale.
Oggi sono ancora più convinto che proprio nel nuovo equilibrio tra un CCNL meno rigido, con più spazi di “adattabilità” e la validazione democratica degli accordi da parte dei lavoratori (sorretta dalle regole del Testo Unico sulla Rappresentanza) vi sia la via da seguire
Proprio per meglio cogliere la nuova fase di ristrutturazione del nostro modello di impresa.
La crisi non ha fatto altro che accelerare, infatti, una polarizzazione in atto tra imprese e sistemi che questa stagione contrattuale, più di altre, prova a registrare. Polarizzazione che in parte abbiamo visto riflettersi anche nella crisi delle associazioni di rappresentanza datoriali e nella moltiplicazione (ahimè) anche dei CCNL.
Una polarizzazione tra chi, nella crisi, ha investito e si è ritagliato o un ruolo di nicchia nel mercato interno o una capacità di competizione internazionale sulle esportazioni. E dall’altro chi, soprattutto soffrendo di scarsa innovazione o di dimensioni di imprese limitate, ha provato a resistere con la compressione del costo del lavoro, con l’esasperata sostituzione del lavoro al posto degli investimenti.
Non è questa la sede per un’ analisi approfondita del perché di questa “selezione” di impresa: fisco, sistema del credito, costi energetici, carenza infrastrutturale, ecc. hanno sicuramente rappresentato un insieme di fattori che ha reso quasi inutile ogni intensificazione del fattore lavoro a fronte di diseconomie di sistema così evidenti e cosi grandi.
E sta di fatto che, in un sistema fatto di alcune eccellenze già internazionalizzate, già inserite dentro investimenti diretti esteri, il grosso del nostro sistema di medie e piccole Imprese chiede alle relazioni industriali altro.
Ha altre esigenze, ha altre dinamiche e dobbiamo tenere insieme tanto le prime che le seconde se vogliamo rappresentare, con la contrattazione collettiva, un’ alternativa alla fuga dal sistema relazionale. Fuga che si manifesta o nella tentazione del solo contratto aziendale, o in una contrattazione individuale spinta, o nel mix – nella sostanza – delle due.
A questa esigenza oggettiva, direi micro economica, si aggiunge poi il contesto macro economico.
La crisi dei consumi, la crisi del welfare, la precarietà, la frantumazione del ciclo produttivo (tramite ricorso ad appalti o a lavoro autonomo, più o meno in rete ed interconnesso)hanno prodotto disparità economiche, di salario reale e di “salario sociale”, come mai prima nel passato tali da aver acuito la stessa crisi economica che è diventata – ormai è evidente – crisi democratica.
E allora il tema non è solo quella di un nuovo equilibrio tra 1° e 2° livello per rispondere alla sfida della produttività (che c’è e che non possiamo lasciare ad altri), ma anche e soprattutto il tema del salario, del welfare contrattuale e delle trasformazioni organizzative che solo spostando energie sul 2° livello (aziendale, ma anche e soprattutto territoriale, lì dove hai piccole imprese o esigenza di ricomporre il ciclo produttivo).
1) Salario: il salario nazionale e gli aumenti sui minimi tabellari, non possono in questa fase essere concepiti solo come difesa del potere di acquisto ( che in fase deflattiva è quasi un ossimoro) ma anzi – al di là direi quasi delle quantità – devono essere riconosciute nel nuovo modello come leve fondamentali proprio per rompere LA GABBIA DELLA DEFLAZIONE.
Ovviamente sapendo che una strategia che punti agli aumenti salariali oltre l’inflazione è da tenere insieme ad una strategia per una riforma fiscale progressiva (il vero attacco al sistema universalista in questi anni è passato proprio dal fisco a mio parere) e per quelle liberalizzazioni nei servizi privati ai cittadini (professioni, notai, avvocati, farmacisti, tassisti, ecc.) che in questo paese non si sono mai fatte.
2) Salario aziendale, di distretto, di filiera, ecc. pensato e rivendicato come unica leva per selezionare l’impresa e promuovere una ripresa degli investimenti privati su tecnologie, prodotti, processi, mettendo a disposizione non tanto e solo flessibilità degli orari o intensificazione produttiva, ma anche e soprattutto una disponibilità al cambio professionale, all’aggiornamento, alla partecipazione ai processi di riorganizzazione di processo e prodotto dell’azienda o del sistema.
Sul salario, in conclusione, ritengo che il CCNL non può rinunciare ad essere leva salariale e lo “scambio da impostare” deve essere quello tra un CCNL più leggero e un ampliamento reale della contrattazione di 2° livello. Il che tradotto significa, anche pronti a modifiche del CCNL, ma ciò deve obbligatoriamente passare da un accordo di 2° livello che diventi occasione per più partecipazione e più contributo del lavoro al rilancio aziendale.
La vera discussione che va aperta con Confindustria è se – di fronte alla crisi e ai cambiamenti – le aziende e le Associazioni di Imprese per prime hanno scommesso su un di più di contrattazione articolata o se alla fine hanno rinunciato a questa sfida innovativa puntando su una sorta di “riflesso verso una neo centralizzazione”….
Nel piccolo, con il rinnovo del CCNL delle imprese del Legno e Arredo, riconoscendo esplicitamente una doppia “pista” degli aumenti salariali (una parte “ai fini di aumento dei consumi interni sganciata dalla dinamica inflattiva e per questo non oggetto di verifica; una seconda con meccanismi di verifica e recupero esclusivamente inflattivi) e riconfermando ruolo e funzioni delle RSU abbiamo offerto “una terza via” rispetto ad altri CCNL (come riconosciuto dallo stesso Sole 24 ore).
3) welfare contrattuale: il terreno è scivoloso, e per molti di noi in CGIL è stato anche minato (mi si passi l’affermazione un po’ forte) da una visione in parte ideologica che alla lunga si è dimostrata fondamentalmente ipocrita: facevamo, ma non dicevamo … dicevamo ma non ne traevamo le conseguenze … Su questo, anche per merito delle discussioni avviate negli ultimi anni in Cgil Nazionale (penso al convegno di Napoli e di Roma sulla bilateralità) in particolare, abbiamo fatto passi avanti e oggi potremmo forse darci un orientamento omogeneo sul tema. Orientamento che declinerei così:
a) come rendere il welfare contrattuale compatibile con l’offerta pubblica, distinguendo tra previdenza (ormai è pacifico), assistenza sanitaria integrativa (e qui la discussione su come ci poniamo di fronte al SSN, alla premialità di chi si rivolge al sistema pubblico, che dovrebbe essere maggiore rispetto a quando ci si rivolge a quello privato e convenzionale, ci sta tutta), e servizi alla persona.
b) Ogni erogazione di welfare (chiamateli poi benefit, buoni o come vi pare) deve essere sempre a mio parere: contrattata e dentro linee guida nazionali. Certo implementabili, certo personalizzabili (perché i servizi alla persona, per esempio, mutano da Regione a Regione da Comune a Comune), ma che definiscono un perimetro affinché non si chiami welfare contrattuale ne l’erogazione unilaterale dell’azienda ne cose assai discutibili come buoni benzina o buoni palestra. Tanto per capirci
c) Deve essere incardinato il più possibile dentro un sistema bilaterale trasparente e democratico, su base territoriale (anche e soprattutto se pensiamo alle piccole imprese, ma non solo), dove non basta che noi concordiamo il “modellino” da riempiere e poi quello che succede, succede. Perché se li si trasferisce una parte di salario ed esigibilità dei diritti non possiamo che costruire case comuni e case di vetro. Come Fillea Cgil abbiamo qualche esperienza …
E quindi delineare i margini delle possibili integrazioni, implementazioni a livello di contrattazione di 2° livello – ATTRAVERSO LINEE GUIDA NAZIONALI – per ridurre l’impatto che già stiamo registrando di welfare aziendali che si “mangiano” i premi di risultato, che si mangiano salario aziendale, magari quello contrattato, per lasciare ai super minimi o premi individuali aziendali, unilaterali, le uniche voci “monetarie” aggiuntive al CCNL.
Il rischio di un paternalismo che divide, che individualizza ancora di più (fortemente incentivato anche dal meccanismo fiscale) lo vedo tutto e visto che non possiamo negare la domanda sempre più personalizzata che viene dai lavoratori (anche per aspetti nobili, penso alla formazione e su questo il CCNL metalmeccanico sarà un bel banco di prova per tutti), dobbiamo da subito dotarci di metodologie e comportamenti omogenei in grado di fare del protagonismo dei lavoratori, sia nel costruire la domanda, che nel verificarne la gestione, un nostro punto di forza nella contrattazione del welfare.
E porci anche il tema – lo dico senza problemi – anche di meccanismi di mutualità tra esperienze diverse per evitare il rischio che poi si dia a chi sta messo meglio di più, e a chi sta messo peggio sempre di meno. Consapevoli che un sistema è universale non se lo ampliamo ma se da anche ai pensionati, ai disoccupati, agli studenti.
Non so se la soluzione è nei fondi intercategoriali, non so se è nella costruzione di fondi intersettoriali dentro la stessa categoria, ma sento anche questo rischio e mi interrogo di come non approfondire fossati per l’oggi e per il domani. Con un’unica certezza: il welfare contrattuale può essere un pezzo del sistema, non il tutto!
Infine una riflessione e per quanto mi riguarda anche un’autocritica.
Vedo tutte le potenzialità di questa discussione, colgo tutti gli aspetti di innovazione che Confindustria non coglie, non può o non vuole, pensando che la riforma che noi proponiamo vada piegata ad una ricetta antica “di lavorare di più per essere pagati di meno”.
E vedo la grande occasione di una possibile nuova riforma del modello che, pur più leggero, pure più diversificato tra settori, storie, realtà diverse, non rinuncia ad una lettura e proposta unitaria per riportare ad unità ciò che la crisi ha diviso o ampliato nella divisione (lavoro pubblico e privato, Nord e Sud, grande e piccola azienda, dipendenti e autonomi o pseudo tali).
E vedo spazi per una ripresa di protagonismo unitario di militanti, rsu, strutture territoriali, connessa all’equilibrio di cui parlavo prima tra modelli diversi, leggeri e T.U, validazione democratica.
Al contempo però mi chiedo se come sindacato confederale siamo realmente pronti.
Da anni abbiamo subito una torsione burocratica (e mi riferisco a cdlt, regionali, categorie, senza distinzione tra Cgil, Cisl e Uil e non me ne vogliano ). Scontiamo una politica dei quadri povera, in molte parti assente, perché nella perdita di consenso vi è anche questo.
Abbiamo investito poco in “formazione contrattuale”. Sempre meno delegati sono messi nelle condizioni di sapere e maneggiare organizzazione del lavoro, turni a scorrimento, orari flessibili, implementazione dei profili professionali, analisi dei fabbisogni formativi, ecc.
Vedo in giro un rifugiarci troppo spesso nella soluzione legale, nella tutela (fondamentale, non fraintendetemi) individuale, spedendo i lavoratori direttamente agli uffici vertenze o dagli avvocati, senza tentare un legame con gli altri lavoratori o effettuare un primo tentativo in sede sindacale. E vedo fatica anche solo a scrivere piattaforme, ad organizzare alleanze tra figure professionali diversi, a riconnettere in parole d’ordine unificanti condizioni diverse. Ed ogni volta che un delegato storico va in pensione, vedo non solo la fatica per trovare nuovi candidati anche la fatica per una “catena della trasmissione dei saperi sindacali”.
Ovviamente come Categorie siamo responsabili in primis , ma per quanto possiamo riprendere ad investire su questo, deve essere la sfida di tutto il sindacato confederale a tutti i livelli.
Non voglio dire che ovviamente sia tutto così, ci sono esperienze anche molto avanzate, spesso in realtà anche meno conosciute (penso a piccoli territori, ma non solo: Milano su questo sta facendo molto) o in categorie provinciali e regionali (penso alla filcams, alla flc, alla flai, alla filt per non citare la Fillea e limitandomi alle esperienze che conosco) che però non riusciamo a far diventare modelli.
E allora mi interrogo se il vero pezzo mancante alla discussione sul Testo Unico sulla rappresentanza non sia stato quello di una cessione reale di risorse (ovviamente parlo per me, anche di quote di canalizzazione) a favore dei delegati sindacali. Se non abbiamo un tema che tradurrei in una “campagna straordinaria”, in un investimento straordinario per avere 30-40 mila delegati e sindacalisti sul territorio nelle condizioni di far camminare concretamente il modello che proponiamo.
Anche perché se “l’onda della digitalizzazione” e del 4.0 sta arrivando e ci interrogherà sia sui mutamenti professionali sia e soprattutto sui saldi occupazionali … se il machine to machine e la profilatura delle informazioni faranno diluire la separazione tra progettazione, produzione, assistenza personalizzata al cliente e dovremmo per tanto rispondere con un di più di discussione su orari, carichi di lavoro, poli funzionalità, mutamenti delle mansioni … o ci si attrezza con delegati e funzionari sul territorio che sanno di cosa stiamo parlando o rischiamo di rivendicare più spazi per una contrattazione articolata per cui poi non saremo all’altezza.
So che ci sono poi altri punti importanti: la semplificazione del numero dei CCNL e la ridefizione dei perimetri delle nostre categorie, il superamento di distinzioni merceologiche (figlie di altri momenti industriali e tecnologici) ma anche qui vorrei provare a concentrarmi solo su pochi aspetti e provare ad essere propositivo.
In un cantiere edile medio l’industrializzazione del processo da un lato e il cambio del “prodotto” dall’altro (si costruisce di meno e si fa e farà più rigenerazione, riconversione, interventi su risparmio energetico, messa in sicurezza, trasformazione degli ambienti mettendo più tecnologia) sono una realtà. Tutte evoluzioni anche positive di un rapporto diverso con il territorio e fotografia di un’evoluzione di stili di vita e di tendenze demografiche evidenti (abbiamo tante case e tanti anziani)…
Oggi i lavoratori con contratto edile si trovano accanto ad un 30% di partite Iva (quanti artigiani veri, quanti operai costretti ad aprirla è un altro discorso) e ad un 20/25% di lavoratori che hanno un altro contratto. In parte ciò è figlio del dumping (penso al contratto multi servizi o al contratto degli studi professionali per cui un operaio edile se alla fine pulisce i calcinacci o se è un geometra in cantiere non ha il contratto edile o ancora a quello della logistica) e qui dovremmo forse darci qualche regola anche tra di noi, perché poi ad ampliare i perimetri contrattuali e a creare doppi regimi siamo capaci tutti…
In parte – e questo è il punto che vorrei sottolineare – è figlio della trasformazione tecnologica per cui si è sempre meno produttori di manufatti elettrici, meccanici, ecc. e sempre più manutentori e implementatori, proprio per la serializzazione del processo costruttivo.
E allora abbiamo lavoratori dipendenti di imprese con 3-4 operai, molto mobili, che non hanno l’obbligo alle 16 ore di formazione per la sicurezza in cantiere, non hanno l’obbligo di patentino per interventi in altezza, non hanno i DPI direttamente erogati dal sistema della Casse ma teoricamente dal datore (e vediamo che ciò spesso non accade, scoprendolo ad infortunio avvenuto), non hanno quegli strumenti come il RLST che deve validare l’organizzazione in cantiere, ecc.
Non hanno quei meccanismi di immediata esigibilità della responsabilità in solido che negli anni ci siamo conquistati e difesi unitariamente nel nostro CCNL, anche nel caso in cui l’appaltante sia impresa edile e il sub appaltatore applichi CCNL diversi.
Questi lavoratori noi della Fillea Cgil li incontriamo tutti i giorni: possiamo andare avanti a denunce e vertenze, a contenziosi tramite le Casse Edili sollecitando il DURC negativo, ecc oppure dobbiamo porci il tema di un sistema contrattuale che dica che quando si va in cantiere – anche indipendentemente dal contratto applicato – si prende il meglio in termini di sicurezza, formazione, controlli, trasparenza. Questa è in sintesi la proposta che nella piattaforma del rinnovo unitariamente chiamiamo “contratto di cantiere”.
E a noi cosa ci vieta di sperimentare modelli dove proviamo a metterli insieme questi lavoratori, a dare loro voce, a dare loro strumenti per rivendicare condizioni di lavoro migliori, magari con vertenza comuni verso la stazione appaltante, pubblica e soprattutto privata?
Alla fine la sfida vera a Confindustria passa anche per praticare innovazione, dimostrando che la qualità non è un’opzione, ma l’unica scelta sensata – economica, sociale, democratica – per uscire dalla crisi trasformati perché migliori…