Il welfare contrattuale e’ ormai un trend consolidato nella panoramica delle relazioni industriali italiane. Il diario del Lavoro ha intervistato Franco Martini, segretario confederale della Cgil, per fare il punto sui pregi e sui possibili rischi della nuova realtà che si sta sempre piu’ diffondendo.
Martini, si sente parlare sempre più spesso di welfare contrattuale, ma qual è stata la spinta per la sua attuale diffusione nel sistema produttivo italiano?
Il motivo principale per la diffusione del welfare contrattuale è di ordine economico, un aspetto che si declina in due diverse modalità, strettamente connesse tra di loro. La prima riguarda le misure, in tema di fiscalità, contenute nella legge di stabilità del 2016, in virtù delle quali, si è dato il via a una serie di sgravi fiscali per quanto riguarda il premio di produttività, e a una detassazione totale per le misure di welfare contenute negli accordi di secondo livello. L’altra faccia della medaglia è legata alla particolare difficoltà economica del sistema produttivo italiano, che da una parte ha spinto imprese e parti sociali verso una maggiore moderazione salariale, con un trade off tra retribuzione e welfare, molto più appetibile alle aziende. I numeri ci dicono che su 19 mila accordi siglati, un quarto di essi prevede delle prestazioni legate al welfare.
Ci spiega, in concreto, cosa si intende per welfare contrattuale?
Il welfare contrattuale è uno strumento usato per sostituire una parte del salario, uno strumento usato, come detto, in momento di difficoltà economiche particolarmente profonde e persistenti, ma che non dovrebbe rappresentare una pratica costante della contrattazione. La difesa del salario è una battaglia sulla quale l’intera compagine sindacale si trova unita. Non solo perché le retribuzioni dei lavoratori italiani sono tra le più basse d’Europa, ma soprattutto perché crediamo che le prestazioni del lavoratore debbano essere remunerate con il salario, senza essere costretto a veder sostituire una parte della propria paga con l’accesso a tutta una serie di benefit. Naturalmente ci sono azioni di welfare che meritano di essere introdotte e incentivate.
Per esempio quali?
La contrattazione deve agevolare l’adozione di quelle misure di welfare che consentano di conciliare meglio la vita privata dei lavoratori con il lavoro, soprattutto per quanto riguarda la componente femminile, in un paese, come l’Italia, nel quale siamo ancora molto indietro in fatto di pari opportunità. Sono queste le misure che meritano di essere adottate.
Possono però esserci anche effetti negativi nello sviluppo di questo strumento?
Prima di tutto bisogna tenere presente che il welfare contrattuale svolge una funzione integrativa al welfare pubblico, e non sostitutiva. Se così fosse, si andrebbe incontro a un effetto distorsivo, con il rischio di togliere risorse alla sfera pubblica, destinandole a quella contrattuale, allargando ancor di più le disuguaglianze sociali. Nello specifico, un tema che merita grande attenzione è quello della sanità. Ad oggi si contano 360 fondi integrativi, un numero che va a coprire quasi tutti i settori produttivi. L’accesso a questi fondi è una possibilità alla quale i lavoratori guardano con occhio favorevole, considerando le difficoltà che sta attraversando il nostro SSN, dovute ai continui tagli alla spesa. Con questa politica di contenimento dei costi, i lavoratori vengono sempre di più spinti tra le braccia dei fondi integrativi, dal momento che l’accesso alle cure, tramite il pubblico, risulta essere sempre più difficoltoso. Si può innescare così un meccanismo perverso, per il quale i soldi pubblici andranno a confluire nel privato.
Quindi un rischio per il sistema sanitario pubblico?
Bisogna difendere il SSN, proprio perché è universale, e copre una platea di beneficiari che va oltre i lavoratori che aderiscono ai fondi integrativi. Si pensi ad esempio a chi è ormai uscito dal mercato del lavoro, come i pensionati, o a chi ancora non ne è parte o lo è in modo discontinuo, come i disoccupati o i precari. Per tutti questi, il rafforzamento della sanità privata a discapito di quella pubblica, vorrebbe dire accedere a un sistema di cure sempre più residuale, e con poche risorse da investire. C’è dunque il pericolo concreto di acuire le differenze tra insiders e outsiders del mondo del lavoro, ma anche tra i lavoratori stessi. Infatti gli accordi di secondo livello sono solamente il 20%, dunque il restante 80% ne resta escluso. A tutto questo va aggiunto il divario geografico Affinché il welfare contrattuale possa vedere luce, occorre un tessuto socio-economico forte e capillare nel territorio, cosa che si riscontra prevalentemente nelle regioni del centro-nord, come la Lombardia, Veneto e Emilia. In questo modo il Sud del paese vedrebbe aggravarsi maggiormente il distacco con le altre regioni d’Italia.
Alla luce delle esperienza fin qui realizzate, e’ già possibile stilare un bilancio del welfare contrattuale e affermare se porterà con sé degli effetti positivi, e quali?
Per quanto riguarda gli effetti positivi, li abbiamo già accennati, la conciliazione vita-lavoro è sicuramente un qualcosa da incoraggiare. Inoltre vorrei precisare come l’uso dell’espressione “welfare contrattuale” e non aziendale, stia a indicare il fatto che questo fenomeno dovrebbe assumere una connotazione più territoriale, non legata esclusivamente all’azienda, ampliando sia la platea degli attori coinvolti sia i beneficiari. In questo quadro infatti, si possono implementare prestazioni di welfare non rivolte unicamente al lavoratore, ma anche ai propria familiari. È infatti molto difficile che l’azienda si attivi da sola in questo senso, senza il supporto di enti locali. In questa prospettiva il welfare contrattuale può essere foriero di effetti positivi, sempre però ricordando la sua natura di supporto e non sostitutiva al welfare pubblico. È dunque ancora molto difficile fare delle previsioni sul welfare contrattuale, trattandosi di misure implementate da poco, per le quali occorrerà più tempo per trarne un bilancio completo.
Tommaso Nutarelli