“La vita è un’attesa fra un esame e l’altro” diceva Sergio Leone, non a caso regista di western dalle lunghe pause. Ed in questa situazione confusa nella quale versa l’economia internazionale ed ancor più l’Europa il nostro Paese rischia di consumarsi in una ennesima attesa povera però di spunti positivi.
Dal referendum del 4 dicembre all’avvio del 2017 sembra infatti che la partita si giochi fra una tentazione latente al ritorno all’antico (nostalgie della Prima Repubblica, il proporzionale, la caccia alle proposte politiche più rassicuranti quali che esse siano) ed il populismo che si alimenta dei tanti sussulti che girano per l’Europa.
La parola d’ordine, paradossale e certamente assai poco liberatoria, pare essere “tutti nel tunnel” come se i lunghi anni della recessione non abbiano insegnato nulla a nessuno.
L’Italia sul piano politico soprattutto torna a mostrare le solite incertezze e le fragilità che l’hanno nel passato costretta nel ruolo di “sorvegliato speciale” dell’Europa. E quest’anno rischiamo di rivivere questo destino con 260 miliardi di debito pubblico da rifinanziare proprio mentre lo scenario europeo propone le inquietudini dei mercati, il cammino imperioso dell’economia tedesca, gli interrogativi politici delle elezioni in Olanda, Francia e Germania, per non parlare della sorte della Brexit.
Potremmo dire candidamente che “non siamo messi bene” soprattutto se le previsioni che vanno per la maggiore sulla nostra crescita, modesta anche quest’anno, si riveleranno azzeccate.
Ed ancora una volta il nostro destino si lega nei commenti e nelle valutazioni in giro per il mondo alla sorte dell’euro ed alla inevitabile risistemazione degli equilibri europei. E conduce al ragionamento che già a Malta la Merkel ha prospettato quando ha parlato esplicitamente di Europa a più velocità. Tanto che ancora una volta è dovuto scendere in campo il Presidente della Bce Draghi per smorzare questa prospettiva giudicata probabilmente letale per la stessa salute dell’euro. Ma un simile tormentone quando parte non si ferma facilmente e lo dimostra l’andamento dello spread che si è già ricollocato su livelli superiori a quelli calanti di alcuni mesi fa.
Tutto è in movimento, meno che da noi ed i mercati che non aspettano altro per scommettere sui vincitori, per ora almeno non ci collocano certamente fra questi. Del resto l’Europa a due velocità già c’è nei fondamentali economici e nel modo con il quale si affrontano problemi come quello dell’immigrazione. L’unità dell’Europa sopravvive a stento nei palazzi di Bruxelles e a Strasburgo, assai meno nella vita reale dei cittadini europei.
Insomma, lentamente, il cerchio torna a stringersi attorno alle questioni che da anni affliggono il rapporto fra l’Italia e l’Europa condizionando non più solo le scelte di carattere economico e sociale bensì anche la politica ed il funzionamento delle Istituzioni. Può bastare come si sente in giro che i politici cambino linguaggio, che si avvicinino al comune sentire della gente, che la piantino con i loro nebbiosi giochi di parole?
Non esiste per caso un problema più profondo che proprio il referendum di dicembre ha messo in luce ed è costituito da un vuoto di classe dirigente in grado di scegliere, di rivitalizzare una seria cultura politica al passo con questi tempi tanto rapidi quanto implacabili nel lasciare indietro chi non si rinnova?
E tutto questo può avvenire solo se si mettono da parte le nostalgie o le sirene populiste di comodo, tornando a confrontarsi con la realtà del Paese ed i nodi che esso deve poter affrontare se non vuole farsi trovare impreparato quando gli altri, in un modo o nell’altro, avranno risolto i loro problemi e saranno in grado di decidere la direzione non solo loro ma anche quella dell’Europa tutta.
Non c’è altra strada se non quella di fare i conti, severamente, con i nostri ritardi culturali e politici prima ancora che economici. Del resto gran parte della rivoluzione digitale in atto sul piano politico sta evolvendo con un potere istituzionale e politico che si è accentrato nei più grandi Paesi del mondo, o che lo era comunque al di là di come si presenta (da Trump a Putin, dalla Cina alla stessa Merkel). Il che fa sostenere che là dove domina la frantumazione istituzionale, politica e sociale, là dove si procede a colpi di slogan e di risse, là dove presidiano la scena non forze politiche o culturali con una loro identità ma clan, cordate, vecchi potentati non si va da nessuna parte. Di sicuro non si va nel futuro, di sicuro occorre ritrovare ragioni serie ed equilibrate per la partecipazione alla vita democratica. Occorrerebbe ancora di più concentrarsi sulle nostre debolezze tenendo conto che anche se abbiamo una sorta di Patrono in Draghi che sta sostenendo soprattutto il destino dei Paesi mediterranei, non potremo evitare di farci ripetere che il debito pubblico va ridotto, la spesa tagliata, le riforme attuate sul serio e non abbozzate per piacere a questo o quell’altro interlocutore per conquistarne i favori, come è stato fatto almeno in parte durante il Governo Renzi.
Questa rischia di essere la nuova gabbia che si profila per l’Italia e probabilmente senza molti sconti visto che finora ce ne hanno fatto per…19 miliardi, pur avendo noi ottime ragioni per reclamarli ed ottenerli.
Ma i nodi non si sciolgono restando in gabbia. Siamo un Paese dove la tematica della industria 4.0 resta finora confinata in discussioni d’elite o in scelte di pochi grandi gruppi che se lo possono permettere. Perdendo in tal modo opportunità importanti come potrebbe essere quella ella chimica verde in rapporto ai temi ambientali e della qualità della vita o il recupero di politiche industriali oggi assenti e di cui pare che ora perfino la Confidustria lamenti la mancanza. E siamo un Paese dove il sud è ancora trattato come serbatoio di voti ma non come un’area che deve poter marciare a ritmi di crescita europei e dove il territorio sia davvero sotto la sovranità dei suoi cittadini e non come accade ancora sotto quella della criminalità organizzata quando non si vive in una sorta di terra di nessuno, rendendo quasi “invisibili” invece le eccellenze che pur ci sono e una vitalità che malgrado tutto non manca.
Per non parlare infine della disoccupazione. Quella giovanile riemerge costantemente come la punta peggiore dell’iceberg, la più inaccettabile se confina tanti giovani nel limbo di chi non studia e non lavora, ma senza dimenticare che su circa 3 milioni di persone che hanno perso il lavoro almeno un milione ed 800mila sono disoccupati di lunga durata.
E’ dunque il momento di voltare pagina. La politica va incalzata prima ancora che criticata per la superficialità e la mediocrità del suo proporsi. Le scelte di compromesso che si profilano, dalla legge elettorale alle riforme, dall’atteggiamento sull’Europa alle misure per la crescita, vanno messe in relazione con quel che serve davvero all’Italia per non impedirle di accelerare il passo e non con quel che fa più comodo a varie consorterie politiche. E soprattutto va ripristinata una dialettica vera fra le forze sociali ed la politica.. Certo in modo nuovo, senza i riti del passato, ma l’assenza di un rapporto relazionale fra questi due mondi ha nuociuto e non poco al cammino incerto dell’Italia. Misurarsi con queste tematiche oggi non vuol dire altro , per dirla con Sergio Leone, che esser in grado di superare gli esami.