Conoscendo l’ambiente ho sempre osservato con un certo stupore la svolta della Cgil in materia del c.d. welfare aziendale, fino al punto di diventare il beef del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici (Fiom inclusa). Mi sono più volte detto che l’aria era cambiata da quando, un quarto di secolo fa, era chi scrive a dirigere le politiche sociali della Confederazione. Nei confronti miei e delle mie posizioni il gruppo dirigente della Cgil ha sempre avuto una grande tolleranza. Non perdonò, tuttavia, il mio appoggio all’articolo 9 della prima versione del dlgs n.502/1992 che prevedeva la possibilità di sperimentare, nell’ambito del sistema sanitario, forme associate di utenti, confluenti in una mutua o in qualsivoglia analoga esperienza collettiva.
A questo nuovo soggetto, organizzato e consorziato, sarebbe stata stornata una parte delle risorse (o anche l’intera quota, qualora si intendesse attuare un’operazione a più vasto raggio) che il Fondo sanitario nazionale riserva ad ogni cittadino a titolo di quota capitaria, quale quantificazione economica del diritto di fruire dell’assistenza sanitaria. Resto dell’opinione che quella proposta del Governo Amato (alla cui definizione avevo contribuito e che mi diede modo di scrivere nel 1997 il saggio ‘’La sanità liberata’’ per il Mulino) fosse non solo in sintonia con le innovazioni che in quel periodo interessavano i grandi sistemi pubblici europei, ma rappresentasse un valido terreno di sperimentazione e di integrazione tra pubblico e privato.
Purtroppo fu tale il vespaio sollevato che pochi mesi dopo il Governo Ciampi varò un decreto correttivo che seppellì per sempre la proposta di ‘’un mercato possibile’’ nella tutela della salute. Nel frattempo anch’io avevo tolto il disturbo dalla Cgil, dopo che una mozione sottoscritta da 25 importanti dirigenti mi aveva richiamato all’ordine. Quella volta, da gran signore, mi salvò Bruno Trentin. Ma capii che la campana non avrebbe mai più suonato. Ma questa è tutta un’altra storia, morta e sepolta.
Trovo però singolare l’attuale dilagare del welfare aziendale – soprattutto per quanto riguarda la tutela sanitaria – in mancanza persino di una regolamentazione almeno equipollente a quella prevista per i fondi pensione. A mia memoria il solo ministro della Salute che ci ha provato inutilmente – e non benissimo per me – è stata Rosi Bindi nel 1999. Poi il silenzio, mentre il settore si andava espandendo. Si può essere contenti della svolta che ha assunto la contrattazione collettiva, ma qualche ragionamento di carattere sistemico andrebbe svolto.
Ho letto, allora, con interesse quanto ha scritto “Il diario del lavoro” a proposito di un convegno della Fp Cgil dedicato a tali problematiche. Dal mio punto di vista ritengo che ci sia stato, nella relazione e nel dibattito, un residuo di quella idea di sacralità del SSN, che fece affermare ad Enrico Berlinguer che la riforma del 1978 conteneva elementi di socialismo. Ma una serie di questioni – non ha torto la Fp – si pongono comunque. Il ricorso al welfare aziendale – soprattutto nel caso cruciale della sanità – non affronta e quindi non risolve un aspetto di fondo: si tratti dei datori di lavoro, si tratti dei lavoratori e delle loro famiglie, ci sono milioni di persone che pagano ben due volte i medesimi servizi (con le tasse e di tasca propria). Sappiamo che oltre il 60% delle grandi imprese italiane assicura ai propri dipendenti un assistenza sanitaria privata. Ancor prima del rinnovo dei metalmeccanici, era importante la presenza (66,8%) di fondi di previdenza sanitaria integrativa nei contratti nazionali di categoria a fronte di un 35,4% nel 2001 (una forte accelerazione si è avuta tra il 2006 e il 2012).
Come per gli altri interventi di welfare privato, anche in questo campo, le aziende sono più disposte a concedere prestazioni sociali – che godono di incentivi e di vantaggi fiscali – piuttosto che aumenti retributivi. Lo stesso gradimento vale anche per i lavoratori dal momento che la presenza di benefit e di servizi di welfare aziendale è maggiore nelle imprese con un alto tasso di sindacalizzazione (oltre il 40%). Certo, le prestazioni sociali a livello aziendale finiscono per favorire gli assunti a tempo indeterminato. Tuttavia, non avrebbe senso imporre a tutti i disservizi del modello pubblico in nome del principio di eguaglianza.
E’ altrettanto vero, però, che non si potrà mai costruire un sistema alternativo basato sulla frammentazione degli interventi, che adesso rappresentano una risposta ancora parziale ad un profondo disagio sociale determinato dal peso del fisco e dalle inefficienze del sistema universalistico pubblico. Si pone dunque, nella sanità, l’esigenza di una nuova actio finium regundorum tra il pubblico e il privato. In Italia non è solo in crescita, rispetto al Pil, la spesa sanitaria pubblica (con scenari futuri preoccupanti); lo è anche quella privata (oltre il 2% del Pil, 30 miliardi circa) sostenuta largamente, out of pocket, dalle famiglie e dalle aziende. Una spesa privata ed aggiuntiva molto spesso indirizzata ad acquistare beni e servizi già garantiti dal sistema pubblico.
Si profila, dunque, la necessità di una razionalizzazione, stabilendo quale ambito di intervento e per quali soggetti vadano assicurate le prestazioni garantite dal SSN, lasciando il resto all’iniziativa privata collettiva ed individuale. In sostanza, si tratterebbe di superare l’attuale ripetitività delle prestazioni e quindi della spesa, integrando, nell’interesse della tutela della salute, dell’efficienza dei servizi e del risparmio dei costi sostenuti, il welfare di mano pubblica e quello assicurato tramite strumenti privatistici. Ognuno con una sua precisa funzione.
Giuliano Cazzola