Settimana di fuoco per l’industria dell’auto. Perché si è aperta con un evento che avrà conseguenze dirette in almeno quattro fra i grandi paesi produttori di autovetture: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, e Germania. Nonché indirette in almeno un quinto: l’Italia. Oltre a ripercussioni in un teatro solo apparentemente lontano, come quello asiatico. Un evento, ancora, che sul momento ha dominato la cronaca, almeno per ciò che riguarda l’industria delle quattro ruote, ma che probabilmente resterà come una tappa storica per questa stessa industria.
In realtà, la seconda settimana di marzo era da tempo segnata nelle agende di chi segue il settore dell’automotive. Infatti, tutti sapevano che martedì 7 marzo avrebbe aperto i suoi battenti il Salone dell’Auto di Ginevra, una delle più importanti fra le manifestazioni espositive che punteggiano l’anno automobilistico.
Fra gli altri, Sergio Marchionne, sempre attento alla comunicazione, aveva prenotato 7 stand per la Fca e si accingeva a esibire gli ultimi nati della casa, a partire dallo Stelvio, il primo Suv nella storia dell’Alfa. Per non parlare della 812 Superfast, la splendida granturismo prodotta per festeggiare il 70° compleanno della Ferrari. Ma ecco che un avvenimento, che ha avuto luogo a Parigi poche ore prima dell’apertura del Salone di Ginevra, ha messo a rumore il mondo dell’auto. Con la conseguenza, fra le altre, di sconvolgere i piani comunicativi dell’uomo che è, assieme, Ceo di Fca e Presidente, nonché Amministratore delegato, di Ferrari.
1. Il fatto
Siamo dunque a Parigi, nella sede storica della Psa, al n. 75 della Avenue de la Grande Armée. Qui, nelle prime ore del mattino di lunedì 6 marzo, Carlos Tavares, Amministratore delegato del gruppo automobilistico francese, che ha riunito da tempo Peugeot e Citroën, e Mary Barra, Ceo di General Motors, il più grande gruppo auto statunitense, fanno un annuncio congiunto: hanno raggiunto un accordo in base a cui Gm venderà a Psa i suoi marchi europei, ovvero la tedesca Opel e la britannica Vauxhall. Il tutto per una cifra relativamente modesta: 1,3 miliardi di euro. Gm venderà inoltre la banca che garantisce le sue operazioni finanziarie nel nostro continente. Ciò al prezzo di 900 milioni di euro, metà dei quali saranno sborsati dalla stessa Psa e metà da Bnp Paribas.
Ciò farà di Psa il secondo produttore automobilistico europeo, dietro a Volkswagen. In un calcolo ideale, alle 2.130.000 auto prodotte nel 2016 da Psa nel nostro continente, si aggiunge il milione e 90mila auto prodotte, nello stesso anno, da Opel/Vauxhall. O, prendendo un altro parametro, ai 3 milioni e 150mila auto vendute nel mondo da Psa, sempre nel 2016, si aggiunge il milione e 160mila auto vendute da Opel/Vauxhall.
La classifica mondiale dei costruttori rimane invece invariata: General Motors resta al terzo posto, dietro a Volkswagen e Toyota, ma tenendo ancora ben distanziato al quarto posto il gruppo Renault-Nissan. Anche Psa, dal canto suo, rimane nel gruppetto delle inseguitrici, ma ancora ben lontana da Fca che, nel 2016, ha venduto 4,7 milioni di auto.
Ebbene, nonostante che le proporzioni finanziarie dell’accordo non siano sconvolgenti, e nonostante che, come si è appena detto, lasci invariata la classifica mondiale delle case costruttrici, la stretta di mano fra il franco-portoghese Carlos Tavares e l’americana di origini finlandesi Mary Barra è destinata a lasciare una traccia duratura su un’industria globalizzata qual è quella dell’auto. Per molti osservatori, infatti, l’annuncio di lunedì 6 marzo costituisce un fatto che, da un lato, mostra che lo scenario globale di questa industria è già cambiato mentre, dall’altro, può innescare una serie di movimenti a catena in quello che ormai tutti chiamano il risiko dell’auto.
2. Lo scenario tecnologico
Alla fine del secolo scorso, si era aperto un dibattito in cui alcuni parlavano dell’auto come di un cosiddetto “prodotto maturo”. Niente di più sbagliato. Perché, certo, un’idea di fondo, come quella di un motore che mette in movimento quattro ruote su cui è poggiato un abitacolo opportunamente dotato di sedili per guidatore e passeggeri, è rimasta quella che era stata definita a fine ‘800. Ma intorno molto è cambiato e molto sta cambiando. Nelle grandi linee, si può dire che oggi il futuro dell’auto è rappresentato da una convergenza fra il settore auto medesimo è quello della Information and Communication Technology, o, come è stato detto, fra Detroit e la Silicon Valley. E ciò in un doppio senso. Da un lato, un’auto connessa, ovvero un’auto che offra, quanto meno, ai passeggeri, la possibilità di usufruire di tutti i contatti possibili e immaginabili con la grande rete, ovvero con Internet. Dall’altro lato, un’auto a guida automatizzata che consenta all’ex guidatore di trasformarsi in passeggero. Il tutto con l’aggiunta di una motorizzazione che non utilizzi più direttamente combustibili fossili, per mezzo di un motore a scoppio, ma un’energia elettrica immagazzinata in apposite batterie e prodotta altrove, anche grazie all’utilizzo di energie rinnovabili.
Come si può intuire, si tratta, qui sì, di cambiamenti destinati a sconvolgere il concetto stesso di “automobile”. Ebbene, oggi come oggi, non c’è forse nessun gruppo industriale che sia in grado di affrontare, da solo, questa prospettiva. Per affrontarla, due requisiti appaiono necessari. Da una parte, alleanze, e già ve ne sono i segni, fra grandi aziende di settori diversi, ovvero auto e Ict. Dall’altra, e anzi in primo luogo, un’ulteriore crescita dimensionale dei grandi gruppi dell’auto. Infatti, anche solo per cominciare a parlare di questi sviluppi è necessario disporre di risorse finanziarie molto ingenti. E per disporre di tali risorse, dati i margini di profitto non eccelsi ricavabili da ogni singolo “pezzo” venduto, occorre essere un produttore tanto grande da poterle accumulare.
3. Lo scenario geo-politico
Fino a tempi recentissimi, ovvero fino alla vittoria del leave nel referendum sulla Brexit (giugno 2016), e alla successiva vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali Usa (novembre 2016), si pensava, nel mondo dell’auto, che per poter raggiungere la scala dimensionale necessaria per poter poi affrontare la sfida della doppia convergenza tecnologica, sarebbe stato necessario costruire dei gruppi globali, con gambe poggiate in diversi continenti. E’ questa la logica che, anni fa, ha portato alla creazione dell’alleanza fra Renault e Nissan, basata per metà in Francia e per metà in Giappone (alleanza cui, recentemente, si è parzialmente aggiunta anche un’altra azienda giapponese, la Mitsubishi). O che, per altri versi, ha portato all’espansione di Volkswagen in un mercato potenzialmente smisurato come quello cinese. O, ancora, alla nascita della stessa Fca, che ha messo insieme due capitali storiche dell’industria delle quattro ruote, quali Detroit e Torino.
Adesso, con l’estrema rapidità tipica dei nostri tempi, questa convinzione diffusa si è improvvisamente infranta. E c’è chi comincia a dire che è meglio essere un campione continentale, quando non addirittura nazionale, piuttosto che un player globale. E ciò, appunto, perché la crisi della globalizzazione – crisi politica, più che economica – e la conseguente ascesa di idee – più che di fatti – di tipo protezionistico rende incerte le prospettive di un’industria che, come quella dell’auto, è attualmente basata su una supply chain, ovvero su una rete di forniture, ampiamente globalizzata, nonché sulla tendenza, condivisa con altri beni di consumo durevole, a produrre in paesi dove i costi sono inferiori per vendere poi in altri paesi dove la domanda è più sostenuta.
4. Mary Barra, ovvero GM
La brevità del periodo intercorso fra l’elezione di Trump e l’accordo di Parigi fa escludere che la decisione di vendere Opel e Vauxhall sia una conseguenza della vittoria dello stesso Trump e della sua richiesta, avanzata in tono minaccioso ai costruttori americani, di riportare in patria le produzioni emigrate all’estero in un passato più o meno lontano. E ciò per due motivi. Primo perché quattro mesi sono troppo pochi per concepire, disegnare e concludere un accordo così complesso. Secondo perché i due gruppi, Gm e Psa, erano già legati da un rapporto di collaborazione – su vari piani – sviluppatosi nel corso del tempo. E tuttavia è indiscutibile che il contesto, almeno verbalmente, protezionista generato dalla vittoria di Trump dia un particolare significato all’accordo del 6 marzo.
Se guardiamo a questa vicenda dall’altra sponda dell’Atlantico, si vedrà che la notizia è questa: dopo 90 anni, la General Motors abbandona l’Europa Occidentale per ritirarsi negli Stati Uniti. Va ricordato, infatti, che Opel faceva parte di General Motors fin dalla fine degli anni 20 del secolo scorso. Va però anche detto che le idee protezioniste rumorosamente abbracciate da Trump non possono aver costituito, da sole, la causa di una decisione così storicamente rilevante. Semmai, si può ipotizzare che abbiano contribuito a costituire l’atmosfera adatta in cui assumere pubblicamente una decisione già maturata. Infatti, il motivo profondo di questa vendita sta nel fatto che le attività produttive di General Motors in Europa erano fonte di perdite che, col passare del tempo, sono apparse irrimediabili.
Vendendo Opel e Vauxhall, Mary Barra ha quindi compiuto una scelta forse dolorosa, rinunciando alla storica presenza del gruppo da lei capeggiato dal 2014 in quello che era e rimane uno dei più importanti mercati delle quattro ruote a livello mondiale. Ma lo ha fatto, se ben comprendiamo, con uno scopo preciso. “Stiamo ridisegnando la nostra azienda (reshaping our company)”, ha detto Barra. E ha poi aggiunto: “Stiamo consegnando consistenti risultati ai nostri azionisti per mezzo di un’oculata allocazione del capitale volta a investimenti altamente profittevoli”. Precisando poi che tali investimenti riguardano il “core business” di Gm, costituito ovviamente dal settore dell’automotive, e le “nuove tecnologie che ci rendono capaci di assumere una funzione di guida nel definire il futuro della mobilità individuale (to lead the future of personal mobility)”.
Ciò che è importante, insomma, non sono i soldi che Gm avrà direttamente da Psa – che, date le proporzioni della cosa, sono abbastanza pochi -, ma il fatto che la stessa Gm si è liberata di due aziende in perdita costante da anni e ha così liberato risorse finanziarie che, come si è appena visto, potranno essere meglio impiegate da un grande gruppo che si rinsalda nella sua collocazione come primo costruttore di autovetture negli Stati Uniti.
A ciò va poi aggiunto che comincia a pesare la probabilmente crescente divaricazione nei vincoli ecologici posti dalla legislazione sulle due sponde dell’Atlantico, con vincoli più stringenti posti dai regolamenti vigenti nei paesi dell’Unione Europea e vincoli decrescenti, dopo l’elezione di Trump, negli Stati Uniti. Vincoli il rispetto dei quali comporta forti investimenti in ricerca e sviluppo, giudicati come non convenienti da un costruttore che vende in Europa un numero di autovetture insufficiente a sostenere tali costi.
5. Psa, ovvero Carlos Tavares
Se è abbastanza facile capire perché Gm ha trovato conveniente disfarsi di Opel e Vauxhall, anche se in cambio di una cifra non eccelsa, è forse meno facile capire perché Psa abbia considerato conveniente l’acquisto di due aziende da tempo in perdita. Ma qui si può rispondere che, probabilmente, Carlos Tavares, il manager di origini portoghesi che guida il gruppo francese, ha, in qualche modo, condiviso almeno parte del ragionamento strategico di Mary Barra. In primo luogo, infatti, con l’acquisto di Opel/Vauxhall, Psa esce dai confini francesi, ma lo fa per affermarsi come “campione europeo” delle quattro ruote. Inoltre, bisogna ricordarsi del fatto che lo stesso Tavares ha, alle sue spalle, una recente esperienza di successo quale risanatore di Peugeot e Citroën. Quindi, anche se al momento carica il gruppo di cui è a capo di due marchi che, nel breve periodo, saranno sicuramente fonte di ulteriori perdite, ricava da questa acquisizione due vantaggi. In primo luogo, come si è detto, sale nella scala dimensionale collocandosi nel gruppo dei costruttori di auto che vendono tra i 4 e i 5 milioni di “pezzi” all’anno, come Fca. In secondo luogo, forte della sua esperienza di costruttore, comunque, europeo, può ragionevolmente sperare di riuscire là dove gli americani di Gm non sono riusciti, ovvero nel risanamento di Opel e Vauxhall. Anche se, dicono diversi analisti, ciò potrà comportare, in prospettiva, un taglio di posti di lavoro sia in Germania che nel Regno Unito. Insomma, i 38mila dipendenti europei di Opel/Vauxhall non potranno forse dormire sonni del tutto tranquilli.
Ma, tornando al nostro interrogativo, si può rispondere che Tavares ha scommesso sulla opportunità che Mary Barra gli ha offerto, quella di una crescita dimensionale che, nell’immediato, comporta costi non particolarmente impegnativi e che, a breve, e cioè all’inizio del prossimo decennio, si spera cominci a generare utili, grazie anche alle economie di scala derivanti dall’incorporazione dei due nobili marchi all’interno di Psa.
6. Marchionne, profeta solitario
Se c’è qualcuno che può dire di aver avuto uno sguardo lungo, ovvero di essere stato capace di guardare lontano, questo è Sergio Marchionne. Il quale, almeno fin dal 2008, è venuto predicando un suo credo basato sui seguenti assiomi: primo, le grandi case costruttrici di automobili attive sul pianeta sono troppe. Secondo, nel settore auto, e specie in Europa, una diffusa sottoutilizzazione degli impianti è la conseguenza inevitabile di una capacità produttiva installata eccessiva rispetto alla domanda reale. Terzo, questa situazione dell’industria dell’auto genera un’allocazione di capitale che rischia di non essere sufficentemente remunerativa. Quarto, bisogna innescare un processo di consolidamento che porti il numero delle case costruttrici a ridursi. Quinto, tale processo potrà e dovrà, altresì, condurre verso una crescita dimensionale dei costruttori superstiti. Sesto, quando ciò avverrà, le case costruttrici sopravvissute saranno abbastanza grandi da avere le risorse finanziarie necessarie a sostenere gli investimenti in ricerca e sviluppo che, a loro volta, consentiranno, da un lato, di ridurre il numero delle piattaforme produttive destinate a sostenere diversi modelli e, dall’altro, di portare avanti i richiesti processi di innovazione tecnologica.
Forte di queste acquisizioni strategiche, Marchionne, dopo aver migliorato le cose in Fiat, ha proceduto a quella fusione con Chrysler che ha portato alla nascita di Fca. Dopodiché si è impegnato a cambiare natura del lato italiano del nuovo gruppo multinazionale, puntando sulla fabbricazione di modelli di gamma più elevata delle utilitarie, tradizionale punto forte della vecchia Fiat. E ciò proprio allo scopo di produrre modelli sui quali fosse possibile ricavare margini di profitto più elevati, generando quindi quelle risorse finanziarie che, come si è visto, sono necessarie per mantenere o, anzi, sviluppare un profilo competitivo.
Purtroppo, però, a questo punto qualcosa si è inceppato nel meccanismo messo in moto da Marchionne. Nel senso che il mutamento tendenziale del modello di business della vecchia Fiat pare sì avviato con successo, ma il processo di crescita dimensionale del gruppo sembra invece al momento bloccato.
7. Sergio & Mary, una storia mai nata
A suo tempo, e cioè nel 2009, Marchionne aveva tentato una prima espansione europea di Fiat proprio rilevando da General Motors una Opel che, all’epoca, era già bisognosa di un risanamento. Ma la trattativa non andò in porto, anche per l’opposizione dei sindacati e per la conseguente contrarietà delle forze politiche tedesche. Adesso la General Motors ha invece accettato di vendere la stessa Opel a un competitore europeo di Fca. Ma ciò che è peggio di questo schiaffo, sono le motivazioni profonde di questa scelta attuale di Gm.
Come è noto, nel corso del 2015 Marchionne lanciò e rilanciò l’idea di una, secondo lui, auspicabile fusione tra Fca e General Motors. E lo fece non solo pubblicamente, ma in termini molto aggressivi nei confronti di Mary Barra, allora da poco nominata alla carica di Amministratore delegato del Gruppo. E qui bisogna ricordarsi di un fatto importante, ovvero del fatto che, mentre Fca ha in Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, il suo azionista di riferimento, la General Motors è un’azienda strutturata sul modello della cosiddetta public company. Pur essendo un’impresa molto più grande di Fca, Gm non ha un azionista di riferimento. Ciò che tiene insieme la compagine dei maggiori azionisti rappresentati nel Consiglio di Amministrazione è il comune interesse a vedere soddisfacentemente remunerati i propri investimenti finanziari nell’azienda. Ebbene, ciò che fece allora Marchionne fu il maldestro tentativo di insinuare nell’animo di tali maggiori azionisti l’idea che il loro nuovo amministratore delegato – appunto, la signora Barra – non fosse all’altezza della situazione e non facesse i loro interessi rifiutando anche solo di discutere il per loro profittevole accordo proposto dallo stesso Marchionne.
La cosa andò male. La risposta indiretta degli azionisti si concretizzò nel fatto che decisero di aggiungere all’incarico di Amministratore delegato di Gm, già ricoperto da Mary Barra, anche quello di Presidente del Gruppo. Adesso, nel momento in cui vende Opel a un concorrente di Fca, Barra rivolge esplicitamente ai suoi azionisti parole che possono forse essere considerate come rivolte retrospettivamente, e implicitamente, allo stesso Marchionne. Rileggiamole insieme: “Stiamo consegnando consistenti risultati ai nostri azionisti per mezzo di un’oculata allocazione del capitale volta a investimenti altamente profittevoli”. Nel comunicato emesso dal gruppo il 6 marzo, si precisa inoltre che l’accordo appena raggiunto con Psa rappresenta “un passo ulteriore nel lavoro di Gm attualmente in corso”; un lavoro “volto a trasformare l’azienda che ha conseguito per tre anni consecutivi risultati da record, oltre a solide previsioni per il 2017, e profitti significativi per gli azionisti”.
Insomma, è come se Barra dicesse ai suoi azionisti che, nel 2015, aveva ragione lei e che la General Motors non aveva e non ha nessun bisogno di unirsi con Fca e nessun particolare interesse a prendere in considerazione le proposte di Marchionne.
8. Un futuro incerto
La vendita di Opel/Vauxhall a Psa apre insomma un problema strategico per Fca. La repentina e, forse, inattesa crescita dimensionale del gruppo transalpino dà ragione a Marchionne sulla necessità di acquisire maggiori dimensioni per i costruttori di auto che si pongono al di sotto del terzetto di testa, quello composto da Volkswagen, Toyota e General Motors. Ma mostra anche, in modo impietoso, che al momento la strategia della crescita dimensionale, che peraltro può realizzarsi solo attraverso processi di fusione, non ha nessun interlocutore disponibile. Non uno del terzetto di testa, quello dei gruppi da 10 milioni di autoveicoli venduti all’anno o più, non uno degli inseguitori, quali Ford, Renault-Nissan e Psa. Nel giro di un paio di giorni, infatti, Marchionne ha dovuto incassare, dopo il consolidarsi dell’alleanza strategica fra Gm e Psa, una smentita proveniente da Volkswagen circa possibili richieste di contatti con Fca.
La strategia di Marchionne, insomma, era teoricamente giusta, ma dopo il colpaccio fatto con l’acquisizione di Chrysler e la conseguente fondazione di Fca, e dopo lo scorporo di Ferrari da Fca è, almeno fino ad ora, mancata la capacità o la possibilità di consolidarla con un ulteriore passo avanti. E se Fca non trova venditori grazie a cui ingrandirsi fino a una dimensione ottimale – nel 2008, a crisi appena iniziata, Marchionne aveva parlato della produzione di 6 milioni di auto all’anno – c’è il rischio che la stessa Fca trovi sulla sua strada un compratore desideroso di acquisirla per intero o in parte.
Ma quel giorno, probabilmente, Marchionne non sarà più alla guida della sua creatura. Come aveva annunciato al momento del lancio del piano quinquennale 2014-2018, e come ha ribadito poi più volte, il grande Sergio intende restare in Fca solo fino al completamento del bilancio del quinto anno, ovvero fino alla primavera del 2019. Poi, per qualche tempo ancora, si propone di restare nel mondo dell’auto quale leader della Ferrari.