L’Annuario del lavoro 2016 ha riportato tra le altre cose un lungo articolo del professor Tiziano Treu, che ha fatto il punto delle diverse riforme del lavoro che si sono succedute in questi ultimi anni, facendo il punto argomento per argomento. Un lavoro importante, per l’autorevolezza di chi lo ha redatto, soprattutto perché l’affastellarsi dei diversi interventi ha causato molta incertezza. Una voce chiara che spieghi nei dettagli, per ciascun istituto cosa è accaduto e indichi anche cosa sarebbe bene fare, rappresenta un aiuto importante per chi si aggira nel vasto mondo del lavoro.
E’ nella considerazione della rilevanza di questo lavoro che abbiamo deciso di farlo conoscere a tutti i lettori de Il diario del lavoro che non sempre si identificano con quelli dell’Annuario del lavoro. Pubblicheremo così i diversi paragrafi del lavoro del professor Treu che ringraziamo per la disponibilità che ci ha dimostrato.
Le riforme del lavoro degli ultimi anni (terza puntata)
4. L’andamento dei contratti a termine
L’andamento dei contratti a termine fornisce ulteriori informazioni circa l’impatto delle riforme, peraltro bisognose di non poche specificazioni.
All’approvazione del decreto 34/2014 ha fatto seguito una impennata delle assunzioni a termine, che a fine anno 2014 sono state pari a 232.000. Tale crescita e la sua tempistica sembrano testimoniare, come rileva il rapporto del ministro del Lavoro, un deciso apprezzamento per il nuovo contratto a tempo determinato, anche a fronte di un contesto economico poco propizio alle assunzioni. La spinta si esaurisce nell’ultima parte dell’anno, presumibilmente per l’attesa delle nuove misure di sgravio per il 2015, già note alla pubblica opinione. L’impatto della normativa sul riequilibrio dei rapporti fra i due contratti è confermato dai dati del 2015, che registrano un calo dei contratti a tempo determinato soprattutto in virtù delle trasformazioni di questi in contratti a tempo indeterminato (574.646 nell’anno). D’altra parte nell’aumento totale dell’occupazione nel corso del 2015 sono cresciuti anche i contratti a termine, ma per la prima volta gli occupati a tempo indeterminato sono aumentati tre volte tanto7.
In realtà nel valutare questi andamenti va considerato che il ricorso al contratto di lavoro a termine, specie nel settore privato extra agricolo, è fortemente influenzato non solo dalle modifiche della normativa, ma dal ciclo economico, oltre che dalle condizioni generali dell’economia, e dal grado di fiducia e dalle aspettative delle imprese.
Lo conferma la serie storica di questi ultimi anni, che mostra marcate oscillazioni nel numero dei lavoratori a termine (oscillazione contenuta in media fra 200 e 300.000 unità), legate in particolare all’andamento dell’economia.
La nuova normativa del 2014 e del 2015 sembra avere esercitato una influenza specifica sulle caratteristiche qualitative dei contratti a termine. L’ampliamento delle proroghe consentite si è riflesso nell’aumento del numero medio di proroghe per contratto; e così ha consentito un uso più flessibile dell’istituto8. Nessuna modifica di rilievo si registra invece nella durata di questi contratti, che resta breve9. Anche depurando le stime dai contratti di breve e brevissima durata, i contratti con durata superiore ai 12 mesi superano di poco il 2% nel 2014.
Come si vede, le tendenze rilevate segnalano un riequilibrio fra i due tipi di rapporti nel senso indicato dalla nuova normativa; cioè a sostegno della diffusione del contratto a tempo indeterminato; anche se il ricorso ai contratti a termine reso più flessibile dalla normativa resta consistente.
Al riguardo si rileva criticamente da molti che il superamento delle causali non è controbilanciato dal tetto del 20% al numero massimo di contratti attivabili nella singola impresa né dal modesto incremento dei costi contributivi (1.5%) sugli impieghi a termine.
In realtà proprio le caratteristiche strutturali di questi contratti suggeriscono cautela nel giudicare l’efficacia delle diverse tecniche giuridiche di controllo e ne segnalano la debole incidenza. Lo testimonia la lunga e controversa storia delle causali nelle sue diverse varianti: dalla indicazione tassativa delle causali previste dalla legge del 1962, alla versione opposta del cd. “causalone”. Le causali sono state fonte di continuo e diffuso contenzioso, nonché di leggine “di riparazione”, senza apparente incidenza sui livelli di utilizzo dei contratti temporanei, che si sono rivelati in passato oscillanti secondo il ciclo, ma corrispondenti alla media europea, solo con una lenta crescita negli anni recenti (serie storica dati).
L’obiettivo delle causali è di controllare abusi nell’impiego di questi contratti, consistenti nel loro impiego per attività aziendali non transitorie. Ma le attuali trasformazioni delle strutture produttive rendono difficile identificare tali attività e stabilire il confine con quelle “stabili”. D’altra parte la utilità di questa tecnica, per la sua residua capacità di controllare eventuali abusi, andrebbe valutata tenendo conto anche dei costi dell’implementazione, compresi quelli della gestione del contenzioso giudiziario.
D’altra parte nel valutare l’efficacia complessiva della regolazione di questi contratti va rilevato che anche altri limiti previsti dalla normativa italiana ed europea si sono dimostrati alquanto deboli. Così è stato per il limite massimo di 36 mesi di durata del contratto che è stato sovente prolungato dalla contrattazione collettiva decentrata e nazionale.
La stessa contrattazione ha più volte previsto la possibilità di alzare il tetto del 20% posto dal decreto 81/2015 alla quantità di lavoratori a termine impiegabili nella stessa azienda; mentre al contrario sono alquanto rari i tentativi delle parti sindacali di porre limiti temporanei o di attività più ristretti di quelli previsti dalla legge.
In realtà la valutazione delle tendenze in questa materia e della efficacia degli interventi normativi, deve considerare non solo lo stock e i flussi di contratti a termine, ma le condizioni e i tempi della loro trasformazione in contratti a tempo indeterminato. Queste dipendono da variabili macroeconomiche su cui la legge può influire indirettamente e in misura limitata, modificando le condizioni relative di convenienza, come ha fatto il legislatore del 2015.
Le indicazioni di questi dati, come di altri simili, come ho già rilevato, segnalano un lasso di tempo ancora troppo breve per considerarle di sicuro effetto sull’equilibrio fra i due tipi centrali del rapporto di lavoro, tanto più in un periodo di crescita contenuta sia dell’economia sia dell’occupazione. Ma le tendenze rilevate alla crescita dei contratti a tempo indeterminato smentiscono le previsioni avanzate da taluni secondo cui la nuova normativa avrebbe precarizzato il mercato del lavoro, alterando equilibri fra i diversi contratti in contrasto con i principi costituzionali di proporzionalità e razionalità.
Un altro dato significativo emerso dalle prime rilevazioni è che, mentre il 2015 e la prima parte del 2016 hanno registrato una ripresa dell’occupazione dipendente, (+321.000 occupati), dato significativo, tenendo conto dell’andamento debole dell’economia10, i contratti di collaborazione hanno subito una consistente riduzione. I dati del 2015 indicano un calo di 203.351 contratti: stima probabilmente per eccesso del numero dei collaboratori interessati, dato che un singolo individuo può svolgere collaborazioni per più committenti11. La variazione tendenziale delle collaborazioni risulta accelerata nella seconda metà dell’anno, ove si segnala una loro riduzione del 50,8% in concomitanza con la approvazione del d. lgs 81, 25 giugno 2015, che ridefinisce la nozione di collaborazione. Ma i dati più recenti indicano una rinnovata crescita dei rapporti di lavoro autonomo (nel secondo trimestre 2016, +1,2%), a conferma che essi, depurati da forme improprie, sono destinati in prospettiva a svilupparsi.