Il lascito più insidioso e perfido che la recessione ci ha lasciato è senz’altro il senso di incertezza profonda che attraversa la nostra società. Incertezza verso il futuro ma che si ripercuote sul destino delle persone singole. E che acuisce la crisi del nostro essere comunità. Il filosofo recentemente scomparso, Baumann, sosteneva che “la generazione meglio equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza”. Avremmo più strumenti per rileggere il passato e decifrare il presente per capire come muoverci verso il futuro, ma in realtà siamo ci muoviamo come coloro che hanno perso l’orientamento, la bussola della nostra storia.
Le crisi sono molte: Europa, populismi, crescita economia, diseguaglianze, mutamenti tecnologici che cambiano le carte in tavola della produzione, del lavoro, della qualità della vita. Di conseguenza è emerso con nettezza il problema della perdita delle convinzioni tradizionali dalle quali dipendevano non solo le certezze in termini di strategie individuali e di gruppo ma anche i comportamenti collettivi da assumere per superare le difficoltà.
In questo senso la frantumazione sociale è diventata anche disorganizzazione sociale; i rischi reali di sopravvivere ai margini del mercato del lavoro si sono identificati nella precarietà; la mancanza di obiettivi comuni e condivisi stanno sfociando nel ritorno di nazionalismi ed in un populismo che dovrebbero far scudo alla paura di futuro che sembra capace solo di togliere, diritti, tranquillità, prospettive.
Forse anche per tali motivi gli orizzonti entro cui muoversi sono diventati tanto ristretti: sono quelli dello zero virgola in economia, della frana della partecipazione alla politica sostituita da suggestioni plebiscitarie, della emarginazione di un valore fondante la comunità come quello della solidarietà che rende più difficoltosa anche l’impegno per dare soluzioni concrete ai focolai di crisi presenti in tante attività economiche e produttive.
La tentazione di uscire dall’Europa, di consegnare la propria protesta a qualche demiurgo, di tenere a bada le proprie insicurezze in un individualismo che giudica la partecipazione un lusso inutile non vuol dire altro che cullare l’illusione che tutto tornerà come prima e che quindi occorre solo saper gestire come si può le …pene dell’oggi. Ma questo atteggiamento rischia di provocare soltanto uno sterile fatalismo che al dunque può solo peggiorare i ritardi e le contraddizioni economiche e sociali con le quali dobbiamo fare i conti. Fuggire dai problemi in una stagione della storia dove tutto cambia è il peggiore degli errori.
Ecco perchè dovremmo recuperare in modo paziente ma deciso valori che sono propri della cultura laica e riformista quali quello della dignità della persona e della comunità. Valori dai quali dipende anche il grado di libertà e la qualità della democrazia.
Compito assai difficile ma che va considerato come una reazione necessaria e positiva in una fase nella quale è venuta meno la fiducia verso la classe dirigente e le espressioni della politica in genere e c’è al tempo stesso la imprescindibile esigenza di rimetterci in discussione e cambiare il punto di vista rispetto a questioni che richiedono risposte nuove.
I vecchi partiti sono ormai spariti, d’accordo, ma ricostruire la buona politica è più mai essenziale per dirigere il Paese verso obiettivi che arrestino il degrado, la frantumazione sociale, il declino dell’etica.
L’economia galleggia sul fai da te di un’Italia abituata da tempo immemorabile a fare così. Ma oggi non basta più , come non basta sostituire all’infinito provvedimenti spot che sanno di assistenzialismo fine a se stesso e producono a loro volta ulteriori problemi come è avvenuto per tutto ciò che si è mosso attorno al Job act. Servono invece politiche di più lungo periodo, scelte economiche chiare e di forte impatto, in grado cioè di sostituire i vecchi volani di sviluppo. E ci sono: l’economia verde, la messa in sicurezza del territorio, una alleanza strategica fra Università, ricerca e lavoro, solo per fare tre casi eclatanti.
E soprattutto non è più tempo di furbizie. Non serve promettere un nuovo Welfare… gratis o quasi quando si sa che non è possibile, non serve inondare di agevolazioni il mondo delle imprese quando manca la volontà di tradurre quel capitale di risorse in investimenti, con il concorso del ruolo pubblico. E soprattutto è sbagliato accentrare scelte e decisioni come se i corpi intermedi, la società civile fossero un avversario da tenere alla larga.
Servirebbe invece tutt’altro: rimettere al centro del confronto politico e sociale la persona in primo luogo. La difesa della dignità della persona è fondamentale: va declinata nelle scelte reali che si compiono nel mondo del lavoro e nella convivenza civile. Evitando di rendere i diritti della persona degli optional da piegare ad ogni necessità contingente. E tutto questi è in antitesi con le troppe sudditanze di cui ci siamo caricati nel tempo: quella verso la finanza, quella che produce esclusione per garantire illusoriamente noi stessi, quella che ci spinge a delegare a leadership elitarie e lontane dalla gente e dai loro problemi, per superare lo smarrimento derivante dalla disaffezione verso una classe dirigente che ha deluso speranze ed attese.
Da questo punto di vista poi è innegabile che ricostruire le ragioni della dignità della persona deve spingere a ricostituire un senso forte della comunità che abbia caratteristiche che spronano a guardare avanti, ad aprirsi, a riscoprire il valore del dialogo e del lavoro comune.
In questo scenario i corpi intermedi possono ritrovare un protagonismo che è loro e probabilmente può essere solo loro. Il periodo nel quale ea di moda parlare male del sindacato non è passato del tutto ma mostra la corda. Ed il motivo è semplice: la vitalità dell’azione sindacale ha rimesso le cose al posto giusto. I contratti sono stati rinnovati, aprendo a sperimentazioni che preziose per affrontare le sfide del lavoro che cambia. La tenuta del tessuto sociale in via di pericoloso sfarinamento dipende molto dalla consistenza dell’azione sindacale e sociale. Lo stesso fatto che sia pur fra contraddizioni governo ed Istituzioni stanno riducendo il black out di rapporti nei confronti delle forze sociali è il segno di un primo, insufficiente certo, ripensamento.
Questo contesto che sta cambiando deve dare più coraggio ancora al movimento sindacale. Siamo e restiamo portatori di valori che possono restituirci anche un progetto di nuova società, una politica economica degna di questo nome, una solidarietà praticata senza scadere in nuove forme di assistenzialismo del quali poi doverci pentire. Sta a noi, con coesione, costanza e convinzione di avere ancor un ruolo decisivo per la rinascita del nostro Paese, far pesare le nostre porposte e la nostra azione.
Persona e comunità sono architravi di un processo volto ad uscire dalle incertezze e dalle tante iniquità presenti. Serve ovviamente anche un salto di qualità culturale che per noi è quello di ridisegnare un riformismo capace di dare risposte, di coagulare energie, di esprimere un linguaggio che non sia rifiutato perchè incomprensibile, dalle nuove generazioni.
Olof Palme indicava con queste parole il ruolo del riformismo: “esso pratica la solidarietà con lo sviluppare un senso della comunità. Ed è internazionale nella misura in cui mantiene gli stessi obiettivi in tutto il mondo”. Una lezione che viene dal passato ma che può essere raccolta per dare valore a ciò che si riesce a fare per costruire il futuro.