Nei giorni scorsi ho avuto una lunga conversazione con un nostra giovane concittadina che vive in Inghilterra dove sta preparando la tesi per un dottorato di ricerca in materia di diritto sindacale presso un’Università di quel Paese (mi ha confidato che è un po’ preoccupata per le conseguenze della Brexit). L’ho trovata molto informata e preparata; sull’attualità anche più del sottoscritto (ha saputo ricordare tutti i componenti, ad esempio, della segreteria della Cgil, cosa che io non sarei in grado di fare). Ma quando mi sono avventurato ad evocare il Protocollo Intersind-Asap della fine del 1992, la ragazza mi ha guardato con un lampo di panico negli occhi. Non ne aveva mai sentito parlare. A sua giustificazione mi ha detto di essere nata nel 1990, mentre negli anni ’60 del secolo scorso erano nati i suoi genitori. Per me sarebbe stato facile obiettare che, a suo tempo, aveva studiato le guerre puniche, sempreché non sapessi che di solito i programmi di diritto sindacale iniziano a partire dallo Statuto dei lavoratori (l’arcinota legge n.300 del 1970 che poi è datata soltanto otto anni dopo il Protocollo).
Io non concordo con questa impostazione per diversi motivi. Innanzi tutto, perché lo Statuto non è un punto di partenza, ma di arrivo, per raggiungere il quale sono occorsi più di vent’anni di lotte e di sacrifici. In secondo luogo, perché così si confonde la prospettiva della storia, facendo credere ai giovani che la ‘’normalità’’ coincide con la Austerlitz del sindacato (quando riuscì ad esprimere il massimo del suo potere contrattuale), mentre tutto ciò che è accaduto dopo o sta avvenendo adesso è parte di una ritirata fatta di concessioni e di rinunce. Non riusciamo ad accettare di avere alle spalle soltanto un periodo di alcuni decenni in cui si sono verificate condizioni di progresso, pace e benessere raramente intervenute e difficilmente ripetibili nella storia dell’umanità (Eric Hobsbawm ne ‘’Il secolo breve’’ definisce ‘’età dell’oro’’ l’arco di tempo compreso tra il 1947 e il 1973: lo stesso concetto si ritrova nell’ultimo libro di Luca Ricolfi, in cui l’autore, a mio avviso, è molto severo con la sinistra e troppo generoso con i movimenti populisti). Ecco perché non condivido la consueta litania secondo la quale la prossima generazione sarà la prima della storia a ‘’stare peggio’’ di quelle precedenti. In un ragionamento siffatto è sbagliata la stessa unità di misura. Il metro dell’Età dell’oro è truccato.
La generazione di mio padre alla stessa età in cui un giovane d’oggi presenta curricula a destra e a manca, aveva già combattuto in due conflitti. Quella di mio nonno aveva lasciato 600mila caduti sui campi di battaglia della Grande Guerra. E 26 milioni di italiani, nel corso di un secolo (1871-1970), avevano attraversato i mari e gli oceani per cercare lavoro in ogni parte del mondo (una disperata fuga di braccia, non di cervelli). Nei conflitti del secolo breve vi sono stati 187 milioni di morti, tra combattenti e popolazione civile. E quel ‘’miracolo economico’’ che fornì l’accumulazione di risorse necessarie, per i decenni di benessere che seguirono, viaggiava nelle valige di cartone di tanti giovani meridionali che la fame (sì, la fame!) spingeva a Nord. E che non si consideravano deportati. Mi fermo qui, perché capisco di cadere nella retorica, anche se mi auguro che non siano all’orizzonte tempi peggiori. Noi diamo troppe volte per scontate situazioni che non lo sono affatto; consideriamo naturali diritti che non sono dati una volta per sempre, ma la cui esistenza è perennemente in pericolo.
Dove porta, allora, il ‘’pistolotto’’ di un anziano signore che ha smarrito la concezione del tempo e si riferisce ad eventi – ormai archiviati ed incartapecoriti dallo scorrere implacabile della vita – come se fossero accaduti ieri? Un signore che farebbe bene a tirare le somme di un’esistenza lunga (‘’ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato le fede’’); e chiudere bottega (nunc dimittis servum tuum, Domine). Grazie alla cortese ospitalità de ‘’Il diario del lavoro’’ nei mesi scorsi ho voluto ricordare, in alcuni articoli, le principali vicende che hanno caratterizzato la contrattazione collettiva (in particolare quella dei metalmeccanici) nella seconda metà del secolo scorso, nella consapevolezza che lì stanno le radici del presente e del futuro (ammesso e non concesso che un futuro ci sia) delle relazioni industriali. Mi sono fermato, nelle rievocazioni, all’inizio degli anni ’70, anche se negli articoli dedicati a Bruno Trentin e a Pierre Carniti mi sono spinto praticamente fino agli anni ’90. Ho poi affrontato a parte la vicenda dell’indennità di contingenza (la c.d. scala mobile) che tanta influenza ha avuto nel determinare e condizionare quella struttura della retribuzione che è poi l’altra faccia della medaglia del modello di contrattazione collettiva ed individuale.
Questi singoli spezzoni convergono in un punto: il Protocollo del 1993, dove venne ricostruita la funzione dei diversi livelli di contrattazione, dopo che il modello precedente era arrivato al capolinea a seguito dell’accordo del 31 luglio 1992 (si veda il saggio dedicato a Bruno Trentin). Il Protocollo del 1993 contribuì a riorganizzare la struttura della contrattazione collettiva, ‘’specializzandone’’ i due livelli: il contratto nazionale finalizzato alla difesa del potere d’acquisto, la contrattazione decentrata con l’obiettivo di remunerare la produttività. Già alla fine del decennio, tuttavia, si avvertì l’esigenza di andare oltre l’impostazione del Protocollo. “Il ccnl – stava scritto al punto 4.3 della “relazione finale” della Commissione Giugni incaricata dal Governo Prodi 1 di studiare una possibile revisione degli assetti contrattuali – dovrebbe rimanere una sede determinante del sistema contrattuale e, tuttavia, potrebbe essere ridimensionato quantitativamente e qualitativamente…..Questo significa…valorizzare il suo ruolo regolatore sui minimi normativi, con una contemporanea riduzione degli istituti considerati….In conseguenza delle modifiche apportate al ccnl – proseguiva il documento – il secondo livello avrebbe un ruolo funzionalmente più specializzato…sia dal punto di vista normativo/organizzativo …sia da quello retributivo”. Ma il vero punto di svolta della relazione riguardava la proposta di consentire espressamente, su accordo delle parti, l’introduzione delle cosiddette “clausole di uscita“, tali da permettere “entro certi limiti e a precise condizioni, definite nel ccnl, di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale”. Alcuni anni dopo, Marco Biagi, nel Libro Bianco, ipotizzò, in continuità con l’elaborazione della Commissione Giugni, “una sorta di ‘’derogabilità assistita’’…..al fine di corrispondere alle attese di flessibilità delle imprese ma anche alle nuove soggettività dei prestatori di lavoro”. E’ lungo tale problematica che si stavano, allora, esercitando – bon gré mal gré – la parti sociali in altri paesi europei (dalla Germania alla Svezia), mettendo in causa il “principio che regola la gerarchia delle fonti contrattuali e che vieta – commentò, in proposito, il Cnel – ai livelli contrattuali aziendali di rinegoziare i contenuti definiti nei contratti collettivi regionali”.
E in Italia ? Per accostarsi timidamente a siffatti criteri fu necessario arrivare al 2011 (dopo l’accordo separato del 2009 senza la Cgil che era contraria anche all’individuazione di un nuovo parametro, l’IPCA, quale indicatore dell’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione attraverso la contrattazione nazionale). Ma l’influenza del vecchio sistema è tuttora prevalente. Eppure, basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto che i suoi presupposti sono venuti meno. Quale potere d’acquisto potrà mai garantire il contratto nazionale in una congiuntura economica in cui l’inflazione viene creata artificialmente ? Basterebbe mettere a confronto tra loro l’ammontare dei miglioramenti salariali negli stabilimenti Fca (a fronte del raggiungimento degli obiettivi produttivi indicati) e quelli conseguiti nel rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici o in altri settori. L’assetto della contrattazione collettiva è poi strettamente collegato a quello della rappresentanza e della rappresentatività che, nel nostro Paese, era stato risolto anche in assenza di una legge ordinaria attuativa dell’articolo 39 Cost. il sistema delle relazioni industriali de facto ha funzionato egregiamente per decenni basandosi sui principi della libertà di organizzazione, sancita nel 1° comma, del reciproco riconoscimento tra i grandi soggetti collettivi, fino a dare valore giuridico ad una rappresentatività riscontrabile nella realtà del mondo del lavoro e verificabile attraverso la sottoscrizione dei contratti di lavoro. In pratica, una vera e propria tautologia: è maggiormente rappresentativo il sindacato che sottoscrive i contratti di lavoro, i quali a loro volta sono negoziati e sottoscritti da quei sindacati che sono considerati maggiormente rappresentativi. Questa impostazione – che è poi una pietra miliare dello Statuto – è entrata in crisi per due ordini di motivi: il declino dell’unità tra le grandi confederazioni sindacali; il referendum del 1995 che ha riformato l’articolo 19 dello Statuto. L’amputazione operata dal referendum collegò i sindacati titolati a costituire le rsa (con tutto ciò che ne consegue sul piano dell’agibilità politica) ai soggetti firmatari dei contratti applicati in azienda. Si pose, quindi, prioritariamente – a fronte del ripetersi di accordi separati – l’esigenza di ridefinire il tema di ‘’chi rappresenta chi’’.
Questa travagliata ricerca arrivò, dopo parecchie vicissitudini, ad un approdo unitario nel Protocollo del 31 maggio 2013. L’intesa sottoscritta, infatti, ripeteva sostanzialmente quanto già convenuto dalle medesime parti (le confederazioni sindacali e la Confindustria) nel Protocollo del 28 giugno 2011 e in altri documenti successivi tra cui, da ultimo, l’accordo sulla produttività del 24 aprile 2013. E’ molto più stimolante, allora, interrogarsi sui motivi che hanno indotto le parti sociali a dare logico sviluppo ad un Protocollo che sonnecchiava da ben due anni senza poter imboccare un percorso conclusivo, nonostante che il capitolo sulla rappresentanza fosse ritenuto importante da tutti i soggetti protagonisti della governance delle relazioni industriali. Nelle polemiche intervenute in questi ultimi anni tra le confederazioni sindacali e al loro interno (si pensi alla dialettica tra Cgil e Fiom) gli aspetti controversi non riguardavano la rappresentanza quanto piuttosto la struttura della contrattazione, nei rapporti tra il livello nazionale di categoria e quello decentrato e, soprattutto, con riferimento alla possibilità di utilizzo di clausole derogatorie. E’ questo il terreno su cui si sono riscontrati i maggiori condizionamenti della Fiom sulla Cgil, inducendo il gruppo dirigente confederale ad una sorta di ‘’stop and go’’ a seconda delle circostanze politiche di quel particolare momento. La vicenda di questi anni è riassumibile nella seguente pantomima: si stipulavano accordi per ; si sudavano le classiche sette camice per riuscirvi; poi la Fiom si sottraeva ugualmente; si riapriva il problema e si riproponeva l’esigenza di un nuovo accordo inclusivo della Fiom. In sostanza, come nel Gioco dell’oca, si tornava sempre alla casella di partenza. E così via per anni. A onor del vero, gli altri partner hanno sempre compiuto ogni sforzo possibile per assicurarsi il placet della Cgil. In particolare la Confindustria, che non ha esitato a non avvalersi di quanto consentito (l’estensione erga omnes degli accordi aziendali condivisi da una maggioranza di lavoratori) dall’articolo 8 della legge n. 148 del 2011, fortemente voluto dall’allora ministro Maurizio Sacconi. Una scelta, quella dell’Associazione di viale dell’Astronomia, che a suo tempo le <costò> l’uscita della Fiat: un vulnus non ancora saturato o, proprio perché l’affaire Marchionne si iscrive interamente in quel secondo tempo – ancora da girare – che dovrà definire le regole per la contrattazione di secondo livello, in cui sono annidate le più delicate sfide. Il Governo Renzi (se messi a confronto con l’ex premier i leader sindacali sembrano il padre e le zie) ha più volte minacciato di spezzare l’incantesimo dell’inconcludenza della parti sociali tramite degli interventi legislativi su tre punti: la rappresentanza, la contrattazione e la definizione del compenso orario minimo. La risposta delle organizzazioni sindacali è stata sorprendente ancor più che deludente.
Cgil, Cisl e Uil hanno lavorato per mesi. Ma avrebbero potuto risparmiarsi la fatica e la spremitura di meningi, perché il documento sulle relazioni industriali predisposto dai loro negoziatori (e reso pubblico in data 14 gennaio 2016) era non solo palesemente difensivo e ‘’fuori mercato’’ (nel senso che non è stato e non sarà preso in considerazione da nessuno), ma persino antistorico. Il telaio della proposta restava ancorato ad un modello tolemaico della struttura della contrattazione, incentrato sul contratto nazionale di categoria. ‘’Il CCNL – stava scritto in bella vista – deve mantenere la sua funzione di primaria fonte normativa e di centro regolatore dei rapporti di lavoro, comune per tutti i lavoratori del settore di riferimento, rafforzato nel suo ruolo di governance delle relazioni industriali’’. Fin qui nulla di nuovo, se non fosse per due ‘’dettagli’’ (dove si va a nascondere sempre il Maligno) che non possono essere sottovalutati, anche perché inediti. Innanzi tutto, cambiava la mission del contratto nazionale, che non poteva più essere, secondo i sindacati, quella individuata nello storico Protocollo del 1993. Per quanto distratti, i gruppi dirigenti sindacali si erano accorti che non aveva più senso attestarsi sulla salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni in una fase in cui l’inflazione occorreva produrla artificialmente, come la neve sulle piste da sci. Al punto che, al tavolo dei rinnovi, i sindacati si erano visti chiedere la restituzione degli aumenti concessi in precedenza nella prospettiva di un tasso di inflazione rimasto solo teorico.
Ecco allora, l’alzata di ingegno: ‘’Il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare – si leggeva – a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo. Le dinamiche salariali – proseguiva il documento – dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori’’.
In sostanza, attraverso la stipula dei contratti nazionali sarebbe dovuto aumentare il potere d’ acquisto, allo scopo di rilanciare la domanda interna e contrastare le spinte deflazionistiche. Se così doveva essere, secondo Cgil, Cisl e Uil, finivano in archivio tutti i vecchi indicatori (IPCA compresa) per incamminarsi sulla via dell’ignoto: ‘’A tal fine, il salario regolato dal contratto nazionale, sarà determinato – ecco la svolta – sulla base di opportuni criteri guida ed indicatori, che tengano conto: a) delle dinamiche macroeconomiche, non solo riferite all’inflazione, in particolare per quanto riguarda il valore reale dei minimi salariali valevoli per tutti i dipendenti; b) degli indicatori di crescita economica e degli andamenti settoriali, anche attraverso misure variabili, le cui modalità di erogazione e di consolidamento nell’ambito della vigenza contrattuale saranno definiti dai specifici Ccnl di categoria, anche in relazione allo sviluppo del secondo livello di contrattazione’’. Così, la negoziazione del salario, nel contratto nazionale, diventava addirittura uno strumento di politica economia, che prendeva a riferimento indicatori generici e vaghi come gli ‘’andamenti settoriali’’ per loro natura inadeguati – ammesso e non concesso che fosse possibile individuarli – rispetto alle esigenze delle imprese.
Ma il cerchio si chiudeva con un’altra gemma. Con settant’anni di ritardo Cgil, Cisl e Uil chiedevano l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione allo scopo di ‘’dribblare’’ l’insidia del salario minimo legale. ‘’L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione’’. In questo modo, non solo il contratto nazionale sarebbe continuato ad essere il dominus del sistema (alla faccia dell’esigenza di estendere a rafforzare la contrattazione decentrata per incrementare la produttività e la qualità del lavoro), ma avrebbe assunto la medesima efficacia vincolante della legge. Era questa una scelta non solo sbagliata (era vistoso il cambiamento di posizione della Cisl su tale problematica, in cambio di qualche pallina colorata sulla partecipazione), ma – come l’abbiamo definita prima – persino antistorica. Non a caso la si ritrova pari pari nel progetto di legge di iniziativa popolare, definito Carta dei diritti universali del lavoro, proposto a suon di firme dalla Cgil.
Ecco perché – venuto ormai il momento di tirare i remi in barca nonostante i temi importanti che non ho affrontato, tra i quali vi è certamente la guerra senza quartiere dichiarata dalla Cgil ai governi Berlusconi – credo che le tre centrali sindacali e la Confindustria (un’organizzazione ‘’che risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza’’) non caveranno un ragno dal buco di una trattativa sulla struttura della contrattazione che va avanti da anni senza arrivare a capo di nulla. Non è un paradosso sostenere che, tutto sommato, è meglio così. Esiste ormai un quadro normativo ed economico che può fare da contesto a quel primato della contrattazione di prossimità che stenta ad essere riconosciuto ufficialmente. E’ già presente nell’ordinamento il telaio di un sistema di relazioni industriali rigenerato, tale da valorizzare e proseguire l’esperienza che ha connotato la storia del sindacato dal 1948 ad oggi, senza le avventure di una iniziativa legislativa o di un accordo quadro interconfederale. Si tratta, in primo luogo, dell’articolo 19 della legge n. 300 del 1970 come reinterpretato, dopo le vicissitudini Fiat/Fiom, dalla sentenza Cost. n.231 del 2013 che ha dettato i criteri basilari per il riconoscimento della ‘’maggiore rappresentatività’’ alla luce degli effetti del referendum del 1995; dell’articolo 8 della legge n. 148 del 2011 che ha stabilito le condizioni e i limiti entro i quali un accordo aziendale può derogare (anche in pejus) alla disciplina legislativa dei rapporti di lavoro (il jobs act ha disarmato, in seguito, la pistola dell’articolo 18). Infine, il Testo unico sulla rappresentanza dà seguito al protocollo d’intesa sulla rappresentatività e chiude (o almeno potrebbe farlo) le questioni attinenti ai processi di approvazione ed applicazione dei contratti. Tutto ciò, nella cornice strategica della detassazione strutturale degli accordi decentrati sulla produttività e il welfare aziendale.
In fondo, in queste norme c’è tanto di più di quell’impianto che, nel dopoguerra (il primo comma dell’art.39 Cost., gli articoli 36 e seguenti del codice civile e il rapporto di mandato secondo il diritto comune) consentì di dar vita ad un modello di relazioni industriali che ha resistito nel tempo, al di fuori del disegno pensato dai Padri costituenti. Poi, c’è adesso l’accordo di rinnovo dei metalmeccanici, che, in pratica, ha relegato il contratto nazionale di categoria nel ruolo marginale di garante di minimi salariali e normativi. E basta.
Giuliano Cazzola