Il mondo sta vivendo un drammatico mutamento dei rapporti di forza nella società, silenziosamente in atto da quasi mezzo secolo, che rischia di compromettere le speranze di una duratura ripresa economica mondiale. Ne brontolano da tempo, a mezza voce, i sindacati, ne riflette qualche economista, se lo lascia sfuggire, qua e là, qualche banchiere centrale al capezzale della crisi. Adesso, lo dice con forza un organismo che da sempre incarna l’ortodossia economica, come il Fondo monetario che, anzi, dedica al problema un intero capitolo del nuovo World Economic Outlook, il suo più importante rapporto annuale: i salari non decollano e questo non è una benedizione, ma un problema generale. Più modestamente, tre capisaldi della teoria economica traballano.
Nei paesi in cui la ripresa si avverte (Germania, Usa, Gran Bretagna), la disoccupazione sta scendendo ai minimi (in Inghilterra, mai così bassa dal 1975). I modelli econometrici dicono che, a questo punto, con il mercato del lavoro sotto pressione, i salari dovrebbero aumentare. Ma tengono, a malapena, il passo dell’inflazione. Fanno male – fa capire, tuttavia, il Fmi – gli economisti a sorprendersi, perché è un trend che viene da lontano.
Nel medio-lungo periodo – è il secondo caposaldo teorico che barcolla – le quote di capitale e lavoro sul reddito nazionale dovrebbero rimanere stabili. Al contrario, dal 1970 ad oggi, nei paesi avanzati la quota del lavoro è scesa di quattro punti (dal 54 al 50 per cento) e non dà segni di rianimarsi. Facile pensare che sia un effetto della globalizzazione. Ovvero che la causa sia la concorrenza dei lavoratori dei paesi emergenti: sono i loro salari ad avanzare, come prevede la teoria. Ma la teoria sbaglia anche qui: fra il 1990 e oggi, la quota del lavoro sul reddito nazionale, nei paesi emergenti, è scesa di due punti, dal 39 al 37 per cento.
Perché? Si può dire (con simpatia) che gli economisti del Fmi, davanti al quesito, fanno poco più che grattarsi la testa. Il lungo capitolo dell’Outlook non fornisce, infatti, una risposta univoca. Il tramonto repentino del sindacato, le riforme del mercato del lavoro, spesso indicate come cause immediate del ristagno dei salari sono più conseguenze che motori del fenomeno. Piuttosto, in paesi a forte vocazione manifatturiera, come Italia e Germania, i tre quarti del lungo declino dei salari sono dovuti alla doppia azione dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione. Negli Stati Uniti, dove l’economia è più orientata sui servizi, queste forze spiegano il 50 per cento del declino.
Da una parte, dunque, l’uso crescente dei robot e la diffusione a tappeto dei software, a sostituire il lavoro umano. Dall’altra, offshoring, delocalizzazioni, ma anche lo spacchettamento dei processi produttivi in fasi distinte, distribuite (sulla base dei costi) fra paesi diversi e lontani. Il rapporto attribuisce più importanza al primo fattore che al secondo: una recente ricerca americana quantifica in sei posti di lavoro le perdite legate all’introduzione in fabbrica di un robot. Districarle, tuttavia, è difficile. Ma questo – purtroppo, per Trump – vale anche a rovescio. Il rimpatrio di posti di lavoro negli Stati Uniti, che è uno dei temi ricorrenti della Casa Bianca, difficilmente si traduce in effettiva occupazione. Ma, piuttosto, in maggiore automazione. Ovvero, i posti di lavoro che si ricreano sono di meno e, quando ci sono, sono di qualità e salario inferiore, proprio per via dell’automazione, di quelli che esistevano prima dell’offshoring.
Nell’immediato, salari fermi significano minori consumi e ripresa più asfittica. Ma, nel lungo periodo, vuol dire che la discussione, finora poco più che filosofica, su come ammortizzare gli effetti dell’intelligenza artificiale e dell’automazione sul potere d’acquisto della massa dei lavoratori e, dunque, sul ritmo di sviluppo dell’economia è attuale già ora.
Maurizio Ricci