Papa Francesco dal popolo di Pasqua nel quale ha vissuto gli ultimi attimi di vita pastorale è tornato a quel Francesco di cui voleva seguire le orme. Il Francesco che non rifiuta nessuno, che vive con un convinto rigore etico ma che non è mai disgiunto da una mano tesa.
É presto per riflettere su quello che ha lasciato. Di certo ha voluto essere il Papa delle periferie del mondo, non quello dei salotti e di poteri che sfuggono ad ogni regola.
Di certo ha chiesto che si gridi contro la morte sul lavoro, contro le ingiustizie che creano esclusione. La voce più forte che si è sentita in un mondo dove la commozione è troppo spesso retorica.
Di certo ha scelto anche simbolicamente di soggiornare nella casa di Marta, la donna del fare del Vangelo, non elogiata come Maria in ascolto del Messia, ma essenziale se si vuole conservare il senso del convivio, del dialogo, di una famiglia umana.
La traccia che lascia Papa Francesco a laici e credenti è quella di un umanesimo che valorizza il lavoro e indica i pericoli delle esclusioni. La tolleranza si fa solidarietà, un valore simbolo del movimento operaio nel mondo e troppo spesso dimenticato.
Ricorda Giovanni Ventitreesimo, il Papa della transizione che ha rivoluzionato la Chiesa senza confutarne i principi.
Un Papa straniero in Italia che è diventato parte di quella Roma che ha fin dalle origini promosso l’accoglienza e in seguito i diritti. Per la città dei sette colli si era cittadini, per questo papa tutti figli di Dio e quindi meritevoli di rispetto e di opportunità.
Il suo messaggio sociale non è certo stato innovativo perché il vero pericolo era la regressione dei diritti e la mortificazione della vita in varie parti del mondo. La dignità del lavoro è però presente in tutta la sua pastorale, ed è una dignità che non si limita a combattere lo sfruttamento ma ricorda che il lavoro è anche lievito di civiltà umana.
Inutile nasconderlo: questo Papa ha anche diviso la coscienza dei cristiani e le opinioni dei laici. Avere come via maestra la giustizia non è priva di inconvenienti e di criticità. Ma c’è un punto che si ricollega ad un sentire alto della tradizione storica della lotta per emancipazione del lavoro: non si può non ripartire dal valore della libertà che è liberazione ed opportunità al tempo stesso.
E’ un Papa che ha costruito senza dirlo, ha scelto senza voler essere troppo divisivo, ha fatto storia con la volontà di non perdere mai di vista la realtà che è anche cronaca.
Si potrà giudicarlo in vario modo, ma è indubbio che per il mondo del lavoro si può persino considerare la sua morte come la fine di un leader che non ha mai dimenticato l’emarginazione e non ha mai fatto dell’assistenzialismo un paraocchi per evitare il confronto con la realtà.
Quando morì Papa Giovanni XXIII si pensò che anche il Concilio Vaticano secondo che aprì gli occhi della Chiesa e l’animo dei laici alla comprensione di un mondo profondamente cambiato sarebbe rifluito negli argini di una chiesa da conservare piuttosto che aprire.
Invece era solo l’inizio di un cammino che Paolo VI, il mons. Montini che si prodigò contro l’occupazione nazi fascista di Roma, seppe ancorare ad una visione di cooperazione e promozione dei popoli a livello mondiale mai più abbandonata. Da allora la Chiesa si è fatta capire come parte del mondo che cerca giustizia come poche grandi realtà dotate di poteri decisionali hanno saputo fare.
L’auspicio, allora da laico, non può che essere coerente con quella semina quanto mai utile ed importante: un nuovo Pontefice che non abbandoni sia pure con la prudenza necessaria l’indirizzo di Papa Francesco che ha cercato in ogni modo di proteggere il mondo da se stesso. E lo ha fatto, non dimentichiamolo, considerando il lavoro come il pilastro insostituibile di ogni percorso che abbia al centro la promozione umana.
Paolo Pirani, consigliere CNEL