Con l’ordinanza n. 595 del 2025, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, offrendo una lettura importante alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 2024. Il caso riguardava una lavoratrice, responsabile delle prenotazioni alberghiere presso una nota catena romana, licenziata nel 2019 con la motivazione di una riorganizzazione aziendale. Tuttavia, sia in primo grado che in appello, i giudici avevano ritenuto il licenziamento illegittimo, rilevando come l’azienda non avesse fornito alcuna prova concreta dell’effettività di tale riorganizzazione. La Corte d’Appello aveva quindi riconosciuto alla lavoratrice un’indennità pari a sei mensilità, secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015, applicabile ai contratti di lavoro a tutele crescenti.
La lavoratrice ha impugnato la decisione in Cassazione, sostenendo, tra le altre cose, che il licenziamento fosse stato determinato da finalità ritorsive legate alla sua appartenenza allo staff del dirigente aziendale anch’egli licenziato. La Suprema Corte ha ritenuto infondato questo punto, evidenziando come non vi fossero elementi sufficienti per qualificare il licenziamento come ritorsivo. La valutazione della natura ritorsiva del recesso, ha ribadito la Corte, richiede una prova rigorosa che dimostri l’esistenza di un intento illecito unico e determinante da parte del datore di lavoro.
Tuttavia, la parte più significativa dell’ordinanza arriva nella parte finale della motivazione. La Cassazione ha infatti accolto il terzo motivo di ricorso, relativo all’applicazione del regime sanzionatorio, sottolineando come la pronuncia della Corte Costituzionale del luglio 2024 abbia cambiato radicalmente il quadro normativo. La Consulta ha dichiarato incostituzionale la norma che, in caso di insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, prevedeva esclusivamente un’indennità economica, senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro. Di conseguenza, la Cassazione ha ritenuto che, nel caso specifico, il giudice del rinvio (la Corte d’Appello di Roma in diversa composizione) dovrà riesaminare la questione alla luce della nuova interpretazione costituzionale, valutando se sussistano i presupposti per disporre la reintegra della lavoratrice.
Questa ordinanza rappresenta un passaggio importante per tutti coloro che si occupano di diritto del lavoro e, più in generale, per i lavoratori che si trovano ad affrontare un licenziamento. La Cassazione conferma che la semplice affermazione di una riorganizzazione aziendale non è sufficiente: è il datore di lavoro a dover dimostrare, in modo preciso e documentato, la reale necessità di modificare l’assetto organizzativo. E soprattutto, viene riaffermato un principio di grande rilievo: quando manca del tutto la ragione organizzativa addotta, la sanzione non può limitarsi al solo risarcimento economico, ma deve contemplare anche la possibilità di essere reintegrati, restituendo al lavoratore ciò che gli è stato ingiustamente tolto.
Con l’intervento della Corte Costituzionale, che ha rovesciato una delle norme cardine del cosiddetto Jobs Act, anche i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 ottengono oggi le stesse garanzie di stabilità di chi era stato assunto in epoca precedente. Si tratta, a tutti gli effetti, di una formidabile opera di demolizione normativa, che ha restituito centralità al principio di eguaglianza nella tutela contro i licenziamenti illegittimi e ha ristabilito un equilibrio più equo nei rapporti di lavoro, ponendo un argine a interpretazioni troppo sbilanciate a favore del potere datoriale.
Biagio Cartillone