Eccola, la guerra dei dazi. C’erano già state le tariffe su acciaio e alluminio, ma solo ora la guerra di Trump diventa globale e totale, con l’offensiva anti auto straniere. Nell’economia moderna, gli scambi che acquistano sempre maggiore importanza sono quelli incorporei dei servizi (dalla finanza al software al digitale), dove gli Usa sono leader mondiale e hanno, ad esempio con l’Europa, un largo surplus che quasi azzera il deficit sulle merci. Ma Trump guarda indietro e, da sempre, si preoccupa dello spauracchio Mercedes e Bmw, una fissazione che, probabilmente, tradisce anche la sua età.
Cosa succederà davvero nei prossimi mesi è impossibile dire, con Trump che, come d’abitudine, spara cifre e minacce a caso. Per ora, sappiamo che, dalla prossima settimana, ci sarà un dazio del 25 per cento sulle auto importate. E sui loro componenti, anche se l’auto è poi assemblata negli Usa. Questo secondo capitolo è cruciale, perché significa sgangherare filiele produttive ormai consolidate nei decenni e che integrano, con ripetuti passaggi di frontiera, l’assemblaggio delle vetture finite. La cosa impatta drammaticamente (stracciando trattati commerciali, come il nuovo Nafta) Messico e Canada, ma anche l’assemblaggio negli Stati Uniti da parte di case che si riforniscono in parte in Europa. Gli esperti si aspettano il caos nelle fabbriche, ma questa raffica di dazi mostra anche tutti i limiti e le contraddizioni della politica trumpiana dei commerci.
Il primo obiettivo dichiarato della Casa Bianca è rastrellare risorse per finanziare i tagli delle tasse promessi (soprattutto ai più ricchi, in verità) durante la campagna elettorale. I tagli fiscali aggiungerebbero al massiccio deficit pubblico americano circa 450 miliardi di dollari l’anno. E Trump annuncia trionfalmente che i dazi del 25 per cento sulle importazioni di auto e componenti gli consentiranno di portate nelle casse pubbliche circa 100 miliardi: il 25 per cento dei 400 miliardi che vale l’import di auto e componenti. Solo che la strategia non sta insieme. Per rastrellare davvero 100 miliardi, bisognerebbe che il volume di importazioni restasse immutato, nonostante i dazi, vanificando l’altro obiettivo centrale che è la riduzione delle importazioni per alleggerire il deficit commerciale. Se i dazi funzionano, invece, l’import si riduce e il volume dei dazi anche. Secondo l’International trade commission americana, un dazio del 25 per cento ridurrà le importazioni del 75 per cento, riducendo il gettito dei dazi a 25 miliardi di dollari.
Ma, contemporaneamente, i dazi rilanceranno l’inflazione. Secondo la commissione faranno aumentare i prezzi delle auto, in media, del 5 per cento. Di più per quelle importate, ma in misura significativa anche per quelle prodotte negli Usa. L’esperienza fatta con i dazi sulla Cina nel primo mandato di Trump mostra che il costo dei dazi viene riversato quasi completamente sul consumatore americano. Inoltre, anche le case nazionali si adeguano all’aumento dei prezzi, limitandosi ad uno sconto poco più che figurativo rispetto ai prezzi delle importazioni. E con un effetto imitativo che si allarga al di fuori del settore colpito. Con la Cina, il prodotto sottoposto a dazio erano le lavatrici. Aumentarono i prezzi anche delle lavatrici prodotte in America. E, per imitazione, anche quelli delle lavastoviglie, dove, pure, il dazio non c’era.
Meno risorse, più inflazione. E anche l’obiettivo di lunga lena di Trump – il rilancio dell’industria manifatturiera americana – appare fuori portata. Ciminiere e colletti blu non sono il futuro dell’economia. A fine ‘900, nell’industria manifatturiera americana lavoravano 17 milioni di colletti blu. Oggi sono 4 milioni di meno. Invece, ce ne sono oltre 6 milioni di più nell’industria digitale, Silicon Valley e dintorni. E, nell’auto americana, lavora oggi un milione di persone, un terzo in meno del 2000. E’ una evoluzione inarrestabile: le fabbriche diminuiscono il personale non per via delle importazioni, ma perché cambiano i processi produttivi, sempre più automatizzati. Questo vuol dire che anche l’apertura di nuove fabbriche, su cui scommette Trump, porterà molta meno manodopera di quanto speri il presidente. Elon Musk gli potrebbe forse spiegare quanti operai in meno, rispetto alle vetture tradizionali, servano per un’auto elettrica.
Intanto, il ciclone Trump rischia di disastrare anche l’industria dell’auto nazionale. Fra grandi case americane e grandi case straniere la quota di produzione importata non è molto diversa. Circa metà delle vendite Usa di Toyota, Bmw e Mercedes riguarda macchine prodotte e assemblate fuori dagli Stati Uniti. La quota è del 43 per cento per Stellantis, del 48 per cento per General Motors.
Maurizio Ricci