La sciarada delle tariffe di Trump sta arrivando alla destinazione principale, visto che non vi è dubbio che il bersaglio che lo ossessiona (“quei paesi che ci rapinano”) sia proprio l’Europa. Nell’andamento carnevalesco della nuova presidenza americana – fra fuochi d’artificio, mascherate, legnate, discorsi incendiari, finte e controfinte – non è dato sapere ancora quali misure abbia in mente e, soprattutto, nella gragnuola di cifre inventate e nemici presunti, a quali bugie e fantasie personali creda veramente. Per ora, il fatto che le proteste delle case automobilistiche Usa – consapevoli che l’industria dell’auto è fortemente integrata con Messico e Canada e le tariffe sarebbero un disastro, anzitutto per le stesse fabbriche Usa – lo abbiano convinto a sospendere i dazi sull’auto mostra che il principio di realtà, ogni tanto, si fa largo, ma sul futuro è difficile scommettere. Tanto più quando Trump sembra ansioso di mettere a ferro e fuoco l’ingranaggio più importante dell’economia globale.
Stimato a 1.500 miliardi di dollari, l’interscambio Europa-Usa è il più importante al mondo. E, nonostante le paranoie di Trump, è in equilibrio. Sulle merci, l’Europa ha un saldo attivo: 156 miliardi di euro. Sui servizi (finanza, software, assicurazioni ecc.) il saldo attivo – per 104 miliardi di euro – lo hanno gli Stati Uniti. Il risultato è che, mentre Trump parla di centinaia di miliardi, il passivo americano nel conto corrente complessivo (l’unico parametro che abbia senso economicamente) è solo di 52 miliardi di euro, equivalenti allo 0,2 per cento del Pil americano. Davvero questo 0,2 per cento, un pugno di miliardi, vale una guerra commerciale all’ultimo sangue?
In linea di principio, peraltro, l’Europa sembra tranquillamente in grado di resistere. Le esportazioni verso gli Usa valgono un fondamentale 20 per cento del Pil nazionale, per Messico e Canada. Per l’Europa, non si arriva al 3 per cento, che, a prima vista, sembra possibile assorbire e sostituire con altri sbocchi commerciali.
Il problema è che questo 3 per cento complessivo nasconde situazioni assai diverse all’interno della Ue. Per la Germania, l’export verso gli Usa vale quasi 160 miliardi di euro, per l’Italia quasi 70 miliardi. Anche qui, in rapporto al Pil la situazione è assai lontana da Messico e Canada. Per l’Italia, le esportazioni in America valgono il 3 per cento del Pil. Ma si concentrano in settori specifici, quindi più a rischio.
E qui, le opinioni sugli effetti delle sanzioni si dividono. Secondo gli ottimisti, nel mondo semplice di Trump i bersagli europei da colpire sono quelli più vistosi: le Mercedes tedesche, le borsette francesi, il parmigiano italiano. Ma si tratta di prodotti di lusso, in cui il prezzo non è la componente più importante. Chi vuole una Ferrari si compra una Ferrari, anche se costa il 25 per cento in più, non si accontenta della Ford Mustang. La borsetta di Hermès è la borsetta di Hermès non di Bloomingdale. E il parmigiano non è il parmesan.
La conclusione è che, se Trump seguirà il suo istinto e colpirà le importazioni più vistose, gli effetti economici reali saranno contenuti, perché i consumatori non si faranno spaventare dai dazi. Ma queste importazioni vistose sono solo una parte di quello che gli Usa comprano in Europa e non la più pesante. Nel caso italiano, ad esempio, l’export di alimentari oltre Atlantico vale 6,6 miliardi di euro. Quello di macchinari (escavatrici, per imballaggio, pompe, compressori, movimento merci) colpisce meno l’occhio, ma vale il doppio. E, nel caso delle ritorsioni, i margini, almeno per l’Italia, sono limitati: dagli Usa importiamo soprattutto il prezioso metano e farmaci. Se poi qualcuno volesse far notare a Trump che la guerra all’Europa spingerà l’Europa a rinsaldare i legami e gli scambi con la Cina avrebbe ragione, ma difficile che Trump lo ascolti.
Maurizio Ricci