Con buona pace dei negazionisti l’antropocene è a diritto l’era del collasso del nostro pianeta. E il peggio, forse, deve ancora arrivare. Le modifiche territoriali e strutturali che l’uomo continua a operare – divorando risorse con bieca fiducia – stanno producendo disastri che incidono pesantemente sugli equilibri geologici e umani. A nulla valgono dichiarazioni programmatiche e d’intenti per rallentare l’ascesa al climax, che pure in pochi hanno inteso essere irreversibile. Come se, risalendo la scala del collasso, i gradini franassero alle nostre spalle allo stesso modo di argini, costoni di roccia, fiumi che straripano, mari che si innalzano, terreni aridi che si polverizzano. Tutto quanto si cerca di fare è pura teoria, più simile a un cerotto su una ferita aperta che a un intervento radicale. Fa sorridere, piuttosto, quanto le responsabilità del cambiamento climatico vengano addebitate alla società civile e ai suoi comportamenti, come se separare il tappo di metallo dal vasetto di vetro fosse il rimedio per riportare in vita le oltre 220 vite strappate dalla Dana che ha colpito Valencia – l’ultimo disastro climatico in ordine cronologico…o forse no. E anche l’esito dell’ultimo summit sul clima che si è appena tenuto a Baku, in Azerbaigian, conferma questa impressione, dacché dopo i timidissimi segnali di Davos 2023 il petrolio è tornato a essere “un dono di Dio”.
A farne le spese sono i paesi del secondo e terzo mondo, con un’ondata di migranti climatici che cercano di raggiungere una sponda di salvezza da siccità e inondazioni, ignari però del fatto che la furia della natura non conosce provenienza e direzioni. Come farlo capire ai governanti dell’una e dell’altra parte? Questo è il nodo, anche perché accanirsi su ragionamenti circostanziali è molto più comodo e profittevole in termini di consensi. Anche quando la realtà arriva come uno schiaffo in pieno volto nei paesi del primo mondo sembra difficile intenderlo. Accade così, per esempio, nel nostro Paese, con le alluvioni incontrollate che hanno affondato l’Emilia-Romagna per ben quattro volte dall’inizio dell’anno e se ne è fatto esclusivamente un fatto di politica interna per sbecchettare sugli aiuti. Dovuti, dovutissimi. Ma perché, appunto, continuare a mettere cerotti senza nemmeno lontanamente provare a intervenire sulla ferita? Cerotti che, peraltro, continuano a essere fragili e striminziti.
Intanto, però, mentre ci si punzecchia ai fini elettorali, la ribellione della natura continua a montare e la gente muore. E la gente muore anche perché la logica del capitale prevale su quella morale, per cui poco male se piove, portati l’ombrello e le galosce, ma al lavoro ci devi venire. Forse, però, qualcuno ha inteso l’antifona, anche se comunque è sempre troppo tardi – ma meglio tardi che mai. Dopo il lancio di fango e insulti all’indirizzo dei reali di Spagna in visita a Valencia dopo il disastro della Dana, il governo spagnolo guidato dal leader socialista Pedro Sánchez ha introdotto il congedo climatico, che consente ai lavoratori quattro giorni di congedo retribuito in caso di meteo avverso che potrebbe mettere a repentaglio la loro incolumità nel tragitto casa-lavoro. Una misura non inedita, dacché già nel 2021 il Canada ha adottato una misura analoga a tutela della popolazione lavorativa. Anche dopo l’episodio di Valencia si è assistito a un rimpallo di responsabilità, con i datori di lavoro che hanno giustificato la pretesa della presenza in sede dei propri dipendenti poiché non adeguatamente aggiornati sull’evolversi della situazione meteorologica, mentre il governo che sostiene di aver gestito l’emergenza al meglio delle proprie possibilità in quelle condizioni estreme – pur rintracciando (finalmente) la matrice nel cambiamento climatico. Ma comunque la constatazione non arresta le schermaglie: Sanchez, infatti, ha accusato l’amministrazione regionale di Carlos Mazon, appartenente al principale partito di opposizione People’s Party, poiché spetta alle regioni stesse la gestione di eventi del genere e pertanto Mazon si sarebbe reso responsabile di una tardiva comunicazione alla cittadinanza di quanto si sarebbe abbattuto sul territorio. Paese che vai, scaricabarile che trovi.
In breve, come spiega la ministra del Lavoro Yolanda Díaz al canale Rtve, la misura mira a “regolamentare in base all’emergenza climatica” in modo che “nessun lavoratore debba correre rischi”. In base all’emergenza, quindi, “il lavoratore deve astenersi dal recarsi al lavoro”. Inoltre, la misura si somma a quanto già previsto prima dell’emanazione del congedo climatico, e cioè di poter usufruire di una giornata lavorativa ridotta per emergenze oltre i quattro giorni.
Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, il provvedimento specifica che spetta alle aziende dare il consenso per usufruire del congedo climatico, per cui i dipendenti, a facoltà negata, devono recarsi al lavoro qualora le condizioni meteo non siano al momento sufficientemente gravi o, dove possibile, possano svolgere la propria mansione da remoto.
La misura si inserisce a pieno diritto nei piani aziendali della sicurezza sul lavoro, allo stesso modo dei protocolli previsti per la “violenza di genere e per la prevenzione di atti violenti contro la comunità Lgbtq+” e impone l’adozione di linee guida per mettere a parte i dipendenti dei comportamenti da adottare in caso di emergenza.
Intanto, mentre noi continuiamo a scannarci sui cattivi maestri, noi stiamo a guardare in attesa della prossima tempesta. E comunque, prima o poi, i cerotti finiranno.
Elettra Raffaela Melucci