Quando vuole rilassarsi, fra una rissa e l’altra della maggioranza, Giorgia Meloni alza il telefono, chiama il ministro del Tesoro, Giorgetti, e si fa cantare gli ultimi rilevamenti dello spread fra l’italiano Btp e il tedesco Bund. La differenza di rendimento fra i due titoli viene considerata il termometro della salute finanziaria e i numeri che snocciola Giorgetti sono un balsamo. Lo spread è bassissimo, quota 127, non proprio area Draghi (era a 100), ma molto lusinghiero, rispetto alla norma degli ultimi governi. In parte, è merito di un esecutivo che, nonostante i timori, finora si è adoperato per non spaventare i mercati finanziari. In parte, probabilmente preponderante, è merito di fattori che, con Meloni e il governo italiano, non c’entrano nulla. Se si va a guardare il dato che effettivamente conta, il rendimento del Btp – ovvero quanto noi paghiamo per finanziare il nostro debito, a prescindere da quel che fanno i tedeschi – il dato è molto meno lusinghiero: siamo vicini al 3,5 per cento, più o meno lo stesso livello da metà 2022, il triplo dell’era Draghi. Lo spread, insomma, è basso non per quello che abbiamo fatto noi, ma per quello che (non) hanno fatto i tedeschi. E questa, se Meloni si sforza di guardare al di là dello spread, non è una buona notizia. Ci aspettano tempi difficili.
La Germania, locomotiva dell’economia europea, sta attraversando una crisi non economica, ma esistenziale. Il modello fondato sull’energia a basso costo ed esportazioni a manetta non esiste più. Finito il metano che veniva dalla Russia ed esportare è sempre più difficile. Bisogna inventarsi un nuovo modello, ma qui la Germania paga la sua riluttanza storica ad investire nelle infrastrutture di sostegno dell’economia. La decisione di non indebitarsi per investire si sta rivelando, insomma, per quello che è: un lusso che neanche la Germania si può permettere. Il risultato è che il governo, intanto, è saltato, a febbraio si vota e per avere un nuovo governo nel pieno delle sue funzioni bisognerà aspettare, probabilmente, l’estate.
Il problema è che neanche dall’altra parte del Reno, nella economia europea che, per importanza, viene subito dopo quella tedesca, le cose vanno bene. In Germania, la crisi è economica. In Francia è finanziaria: l’economia marcia, ma il deficit pubblico è al 6 per cento del Pil. Ovvero ad un livello che, dieci anni fa, quando ci arrivarono Italia e Grecia, scatenò la crisi dell’euro. Rischiamo di trovarci in una tempesta come quella? In realtà, sarebbe assai peggio: lo sapremo prima di Natale.
In linea di principio, infatti, il governo Barnier ha preparato per fine anno un bilancio che taglia vigorosamente il disavanzo e ha già ottenuto il via libera di Bruxelles. Tutto liscio, allora? Niente affatto. Il governo Barnier è un governo di minoranza e il suo alleato più importante, la destra di Marine Le Pen, sta puntando i piedi e minaccia di non votare quel bilancio. Gli analisti francesi sono divisi sul fatto che, elettoralmente, alla Le Pen convenga o meno far cadere questo governo, senza aspettare le presidenziali, in programma fra due anni. In fondo, il sostegno a Barnier rafforza le sue credenziali di affidabilità agli occhi di un elettorato moderato. Ma il richiamo della foresta – l’attacco a testa bassa – è forte. E, se il governo cade, si apre uno scenario inquietante e una prateria per l’offensiva della speculazione finanziaria sui titoli del debito pubblico francese, tanto più se, come è probabile, non si riuscisse a formare un nuovo governo e si dovesse andare a nuove elezioni.
Lo smottamento delle quotazioni dei titoli francesi e l’affannosa corsa a tamponare la crisi sarebbero un colpo durissimo alla stabilità dell’euro. Il paragone con la crisi della Grecia di dieci anni fa e con la sua soluzione non regge. La Francia è molto più grande della Grecia, i suoi titoli sui mercati molti di più e lo sforzo finanziario per superare la crisi sarebbe di gran lunga maggiore.
Ma non è solo un problema di dimensioni.
La crisi greca e i suoi ricaschi fu affrontata fra mille divisioni ma da una leadership europea robusta e capace di farsi rispettare, riassunta in Angela Merkel a Berlino e Nicolas Sarkozy a Parigi. La soluzione che fu decisa è discutibile, ma nessuno ha mai messo in dubbio che sarebbe stata trovata e messa in atto. Oggi, l’Europa è senza testa (anche Ursula von der Leyen, a Bruxelles, ha una maggioranza ballerina), perché alla guida del tradizionale motore franco-tedesco, che fa marciare da mezzo secolo l’Europa, non c’è nessuno. Un governo minoritario, in scadenza, destinato a essere messo da parte entro pochi mesi, per essere sostituito non si sa da cosa e quando a Berlino. Un presidente azzoppato, un governo minoritario costretto, forse, a dimettersi per essere sostituito non si da cosa e quando a Parigi. Davvero, per riprendere una vecchia metafora, chi volesse telefonare all’Europa, da qui alla prossima estate, non saprebbe che numero fare.
Ecco perché Marine Le Pen può scatenare una crisi che spinge l’Europa su un terreno ignoto. È possibile che non lo faccia. Ma un governo sotto perenne ricatto a Parigi offre tutto, meno che garanzie di leadership. La prossima volta che Meloni telefonerà al Tesoro per sentire dello spread, è possibile che Giorgetti avverta: “allacciate le cinture”.
Maurizio Ricci