Sembrerebbero due sinonimi ma non lo sono.
L’uno indica una condizione endemica, inestinguibile, per fortuna, caratteristica delle “società aperte”, in cui la regolazione dei diversi interessi avviene attraverso la negoziazione degli stessi.
Il conflitto sociale, nelle società moderne, si è evoluto all’interno di regole abbastanza precise, innanzitutto, relative alla rappresentanza stabile di questi interessi, poi in seguito al concetto di delega senza vincolo di risultato, infine alla negoziazione attraverso processi di mediazione, più o meno determinati anche dai rapporti di forza in campo.
Insomma il conflitto sociale è connaturato alle società moderne democratiche ed evolute, ha le sue regole, e per quanto possa essere molto intenso, come capita in diversi casi, non ultimo l’attuale vertenza per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, esso non può mai perdere di vista un eventuale accordo tra le parti, il mancato accordo sarebbe una sconfitta, non una vittoria per i diversi interessi in campo.
In questo senso l’apertura di un conflitto sociale presuppone sempre la trattativa e l’esito della stessa, verificato, sulla base delle regole del mandato irrevocabile dato ai negoziatori, ne è la misura del suo successo o del suo fallimento.
Non è mai solo una prova di forza muscolare, non è mai l’avvio indistinto e senza prospettive di una rivolta.
Le parole hanno un significato preciso.
Anche nelle ore più buie, le forze sociali organizzate hanno saputo mantenere precisi obbiettivi per i conflitti che aprirono.
Se qualcuno ricorda gli scioperi di Milano del 1943, in piena guerra, e in pieno regime nazi-fascista, se qualcuno rivede quelle foto, trova in esse un senso di disciplina e di consapevolezza della forza messa in campo, dalla quale dipendeva l’esito del conflitto e l’autorevolezza di chi l’aveva proposto.
Persino in quel caso la piattaforma era chiara e non riferita a generici obiettivi di insoddisfazione sociale. Insomma il conflitto sociale non è sinonimo di rivolta sociale, esso aborre lo spontaneismo, rifugge dalla generica insoddisfazione, non è una fiammata di disperazione, è la lenta paziente costruzione di una organizzazione, di una piattaforma di rivendicazioni, alla quale segue sempre un faticoso negoziato e, non in sporadici casi, sofferte mediazioni.
Perché il problema vero di uno sciopero generale non è se esso riesce o meno, ma soprattutto è cosa succederà il giorno dopo.
Luigi Marelli