In fondo, come a chiudere il palco, c’è un telone bianco su cui campeggiano tre immagini: quelle di un copertone, di un finestrino anteriore, con tanto di tergicristallo, e di un sedile. Tre pezzi indispensabili nella fabbricazione di un’auto, tre pezzi indispensabili per metterla su strada, tre pezzi che stanno a simboleggiare quella che, nel gergo industriale, si chiama componentistica non meccanica.
È venerdì 25 ottobre e siamo a Roma, in piazza Santi Apostoli. Ed è qui che prende avvio la manifestazione nazionale indetta dai sindacati confederali dei lavoratori chimici e tessili: Femca-Cisl, Filctem-Cgil e Uiltec-Uil. Una manifestazione il cui primo scopo, come spiega dallo stesso palco Nora Garofalo, Segretaria generale della Femca, è proprio quello di dare visibilità a quelle lavoratrici e a quei lavoratori della filiera dell’auto che, fin qui, sono stati troppo spesso invisibili.
Tutti sanno, infatti, che, in questa filiera, i capisaldi principali sono gli stabilimenti dove avvengono i cosiddetti montaggi finali. Quelli, tipo Mirafiori, Cassino, Pomigliano e Melfi, per citare quattro iconici stabilimenti della ex-Fiat, poi Fca, e oggi Stellantis; quelli dove, appunto, le varie parti vengono assemblate per avere, a fine linea, un’automobile tutta intera, capace di raggiungere, a motore acceso, un posto nel piazzale dove verrà parcheggiata insieme alle sue consorelle.
Molti, se non tutti, sanno anche che le case costruttrici non si limitano a eseguire i montaggi finali, ma producono in proprio, anche se di solito in stabilimenti diversi, le parti fondamentali di un’autovettura: la scocca, il motore, il cambio, l’albero di trasmissione.
Molti sanno anche che altre parti decisive della componentistica meccanica sono prodotte da imprese fornitrici che applicano ai propri dipendenti il contratto dei metalmeccanici e sono specializzate nella fabbricazione, tanto per fare un paio di esempi, dei sistemi frenanti o delle autoradio.
Ma molti meno sono consapevoli del fatto che, dentro un’auto, ci sono parti fabbricate da imprese non meccaniche. Ovvero da imprese ai cui dipendenti vengono applicati contratti diversi da quello dei metalmeccanici. Per fare altri esempi, è questo il caso dei copertoni, prodotti da imprese attive nel campo della gomma e plastica, o dei finestrini, prodotte da imprese attive nel campo del vetro.
Ebbene, anche queste imprese non meccaniche sono oggi colpite dalla crisi che ha colpito l’industria dell’auto, in Italia come in Germania e in altri Paesi dell’Unione europea. E quindi, lavoratrici e lavoratori dipendenti da queste stesse imprese vogliono far sentire la propria voce perché anche i loro posti di lavoro sono ormai a rischio.
Ma, come ha sottolineato Daniela Piras, Segretaria generale della Uiltec, non accettano, ecco il secondo tema della manifestazione e dello sciopero odierni, di essere considerati solo come lavoratrici e lavoratori del cosiddetto “indotto”; nel caso specifico, del cosiddetto “indotto auto”. E ciò, innanzitutto, perché, con l’orgoglio tipico di chi lavora nell’industria manifatturiera, vogliono che si sappia che dal loro lavoro escono componenti decisive del prodotto-auto. Quindi, per loro, va bene se, a loro proposito, si parla di componentistica, non se si parla di indotto.
Ma, al di là di una discussione terminologica, ciò che è venuto fuori sia negli interventi dei dirigenti sindacali, che in quelli dei delegati che si sono alternati al microfono, è che, a monte della crisi che travaglia il subsettore della componentistica non meccanica, non c’è solo la transizione ambientale, ma specifiche strategie aziendali sviluppate dalle case costruttrici.
Come è noto, infatti, la transizione dall’auto dotata di motore endotermico a quella elettrica elimina una serie di componenti interne o connesse a quelli che, un tempo, venivano chiamati “motori a scoppio”. Ma queste sono componenti meccaniche. Invece, è del tutto evidente che se chi intende produrre auto elettriche non avrà più bisogno di carburatori, continuerà ad avere bisogno di copertoni, finestrini, spazzole per i tergicristalli, tappetini e sedili.
Cosa c’entra, allora, con la transizione ambientale, la crisi delle produzioni di componenti non meccaniche? Delegati e delegate, nei loro interventi, hanno spiegato, tanto per non fare nomi, che, innanzitutto, Stellantis, ovvero il maggiore acquirente esistente in Italia di componentistica auto (meccanica o non), si è proposta di tagliare i suoi costi di produzione. A tale scopo, sta delocalizzando alcune sue produzioni verso Paesi del Nord Africa in cui diversi costi sono inferiori a quelli del nostro Paese. Parallelamente, l’azienda guidata da Carlos Tavares sta chiedendo anche ai suoi fornitori di tagliare i costi dei loro prodotti.
Da ciò derivano due fenomeni. Da un lato, vengono chiusi stabilimenti della componentistica i cui tradizionali insediamenti non sono vicini all’attuale topografia produttiva di Stellantis. Ne segue che alcune produzioni vengono trasferite, sempre in Italia, ma in altre localizzazioni più vicine ai maggiori stabilimenti della stessa Stellantis.
Dall’altro lato, sempre Stellantis fa capire ai suoi fornitori che per loro sarebbe un’opportunità trasferire le loro produzioni negli stessi Paesi nordafricani in cui la casa madre intende sviluppare la propria attività.
Morale della favola. Come e peggio che per gli stabilimenti dedicati ai montaggi finali, anche in quelli della componentistica auto non meccanica dilaga il ricorso alla Cassa integrazione, il cui ammontare consentito tende a esaurirsi. Le imprese sono incerte, non sviluppano innovazione, tendono a liberarsi almeno di parte dei propri dipendenti.
È per questo che, come ha detto Marco Falcinelli, Segretario generale della Filctem-Cgil, c’è un filo rosso che lega lo sciopero con manifestazione nazionale a Roma, effettuato venerdì 18 ottobre dai sindacati dei metalmeccanici – Fim, Fiom e Uilm -, allo sciopero e alla manifestazione organizzati oggi dai sindacati di chimici e tessili. Entrambe le iniziative portano necessariamente i sindacati dell’industria manifatturiera a chiedere al Governo di essere ascoltati. A partire dalla denuncia del fatto che, a tutt’oggi, questo Governo si presenta come privo di qualsiasi orizzonte di politica industriale.
Il che è tanto più grave se, come oggi è stato detto e ripetuto in diversi interventi, dai rischi di chiusura, che riguardano oggi sempre più posti di lavoro, si sta passando a un rischio di deindustrializzazione che riguarda per intero un Paese come il nostro che, da anni, si vanta di essere il secondo Paese manifatturiero dell’intera Unione Europea.
@Fernando_Liuzzi