Barcolla ma non crolla, almeno per ora. Dopo due anni di governo non si può certo affermare che l’esecutivo presieduto da Giorgia Meloni goda di buona salute, anzi. Ogni giorno, quasi ogni ora, succede qualcosa che costringe la premier e i suoi ministri a intervenire con forza e con una certa aggressività contro chiunque osi mettere in discussione questo o quel provvedimento, questa o quella nomina, questa o quella proposta, dichiarazione, intervista, comizio televisivo o informatico. Dal flop albanese al pasticcio del Ministero della cultura, dai tagli alla sanità all’aumento delle accise (cioè tasse) sul gasolio, dalle polemiche molto violente contro i magistrati a quelle contro i giornalisti “di sinistra”. Per non parlare dei migranti che ormai sono diventati l’obiettivo principale del governo, parafrasando un vecchio detto, si potrebbe sintetizzare così l’atteggiamento di Meloni, Salvini, Nordio e compagnia bella: “Quando parli, spara sul migrante, sul giudice, sul giornalista: lui sa perché”.
E’ evidente che questo modo di governare (chiamiamolo così) è un sintomo di debolezza e di insicurezza, tuttavia i sondaggi rilevano una decisa tenuta dell’alleanza di destra, con il partito della premier che si posiziona sempre intorno al 30 per cento o poco meno e i suoi due alleati che combattono tra loro per chi si avvicina di più alla soglia del 10 per cento. Sarebbe interessante che qualcuno esperto della materia, un politologo bravo se ancora ne esiste qualcuno, ci spiegasse come mai un governo che combina pasticci uno dopo l’altro ha ancora un consenso così alto tra gli italiani. Evidentemente la metà dei cittadini condivide l’operato dell’esecutivo, compresi i pasticci e la violenza verbale, ed è disposta a perdonare qualsiasi cazzata facciano i nostri governanti (magari non la considerano neanche una cazzata). Oppure perché non hanno ancora a disposizione un’alternativa credibile, ovvero un’alleanza delle opposizioni che si presenti unita e parli una sola lingua su tutte le questioni all’ordine del giorno, di oggi e di domani. Finché questa alleanza non sarà su piazza, Meloni e i suoi non perderanno consensi e non perderanno neanche le elezioni politiche, qualora ci fossero.
Nel frattempo però domenica e lunedì prossimi si vota in Liguria per sostituire l’ex governatore Giovanni Toti arrestato per tangenti qualche mese fa. La partita se la giocano l’attuale sindaco di Genova Marco Bucci per il centrodestra e Andrea Orlando per il centrosinistra, è chiaro che se dovesse vincere Orlando si tratterebbe di una forte spinta all’unità delle opposizioni anche a livello nazionale: chissà se Schlein, Conte e gli altri leader o leaderini dell’opposizione saranno capaci di cogliere l’occasione. Anche se per stringere un patto serio vorranno aspettare i risultati del voto in Umbria e in Emilia Romagna, dove si voterà a metà novembre: se pure in queste due regioni vincesse il centrosinistra, sarebbe molto difficile mandare tutto a monte e insistere su polemiche pretestuose e spesso dettate dal forsennato “bisogno” di essere il leader (vedi Conte). Così come non poco conterà il voto negli Stati uniti: una vittoria di Kamala Harris contro Trump sarebbe un segnale decisivo per il mondo progressista e, nel nostro piccolo, anche per il centrosinistra italiano. A patto che l’attuale capo dei Cinquestelle riesca a vincere la sua battaglia contro Beppe Grillo e poi si decida una volta per tutte a scegliere da che parte stare. Per esempio abbandonando quell’insana attrazione verso Donald Trump e chiudendo il capitolo del Movimento che non è né di destra né di sinistra. Oggi come ieri e pure l’altro ieri, in Italia e nel mondo, o si sta da una parte o dall’altra. Altrimenti si diventa totalmente irrilevanti.
Riccardo Barenghi