Lavorare troppo, lavorare male. Lavorare tutti, lavorare peggio. Con il suo saggio Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche (Gruppo Abele, 191 pagine, 14,00 €) Sandro Busso, professore associato di Sociologia dei fenomeni politici dell’Università di Torino, tratteggia lo stato dell’arte non di un Paese, ma di un mondo che ha sacrificato la dignità della maggioranza sull’altare di un neoliberismo che molti profetizzano essere arrivato al capolinea, ma in realtà continua la sua marcia inesorabile sulla via di una trasformazione che sta continuando a rimpinguare i profitti di pochi – anzi, pochissimi. Nulla è mutato, solo l’aspetto è diverso, per parafrasare l’Orlando di Sally Porter. Il capitalismo mutaforme, multiforme, che si rinnova e insieme si rinforza, che ci disciplina gentilmente, ci induce a nuove urgenze che non sapevamo di avere e che per soddisfare bisogna darci dentro a più non posso. Ma, avverte la voce suadente del padrone, il lavoro non è una condanna, non siamo mica moderni Sisifo a faticare per spingere un masso su per la collina fino alla fine dei nostri giorni. Il lavoro è bello, il lavoro va amato e allora “fai quello che ami e non lavorerai un giorno nella tua vita”. A differenza di un tempo ormai remoto, l’etica è il lubrificante che olia gli ingranaggi di questa colossale macchina del profitto e ammanta il concetto di lavoro di spiritualismo e mistica. Che però, in molti casi, diventa estasi del martirio fin quando quel masso vince e ti travolge: «[…] utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la “collaborazione” senza bisogno di eccessiva coercizione». Il lavoro non è più quello della dottrina fordista; anche il tempo – il suo valore, la sua definizione – è cambiato con esso e così anche noi. È una sorta di imprinting: come le anatre di Lorenz, nasciamo e cresciamo legati in modo irreversibile a un certo tipo di cultura in cui 0-99 dobbiamo faticare: produci, consuma, crepa. Alcuni tra i più avveduti si sono accorti di questa pretesa naturalizzazione del del lavoro così concepito e hanno preconizzato, grazie alle magie dell’automazione, la promessa di un mondo libero dal lavoro e una ridistribuzione delle risorse e di quello che rimaneva da fare. All’automazione, però, non si è accompagnato questo esito e stiamo vivendo piuttosto il tradimento di quella promessa: produttività e offerta di lavoro sono aumentate, ma seguendo un processo per cui ore lavorate e salari non hanno avuto trasformazioni altrettanto evidenti. Flessibilità e precarietà mordono il freno, aumentano delle distanze sociali, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La promessa del sogno si è così trasformato in un incubo. Se a un certo punto, grazie alle lotte sociali degli anni sessanta, si è assistito alla riduzione dell’orario di lavoro – cartina di tornasole dei processi di dismissione della dignità lavorativa – è con la fine dei Trenta Gloriosi e la fine del fordismo che si è tornati ad assistere ai picchi della prima rivoluzione industriale: salari non più sufficienti, potere d’acquisto falcidiato e il modello della famiglia monoreddito è entrato in crisi per far fronte ai numerosi bisogni indotti dal neoliberismo degli anni Ottanta. Ma se in Europa era ancora possibile surfare sull’onda lunga del benessere mentre la globalizzazione bussa appena alla porta, il sogno si è definitivamente infranto con la crisi del 2008. Il lavoro, che nasce con l’uomo, diventa l’uomo: il tempo della vita viene a coincidere con quello della produttività e non se ne può fare a meno. Puoi anche lavorare appena per la sussistenza, se ti riesce, ma il mondo ti starà sempre alle calcagna a morderti il garretto perché comunque il tuo salario non è sufficiente. È un circolo vizioso che rende desiderabile ciò che per gli antichi era disdicevole: lavora (di più), consuma (di più), crepa (e avanti il prossimo). In questa società della prestazione, la flessibilità è vista come un’opportunità e si colpevolizza chi vi si oppone.
Muovendo da questi presupposti, il lavoro di Busso si articola in due parti. La prima analizza in una prospettiva multidisciplinare – dalla storia all’economia, dalla giurisprudenza alla sociologia – il sogno di una società libera dal lavoro, riflettendo sui fattori e sulle dinamiche che lo hanno reso centrale più da un punto di vista pratico che simbolico e al contempo lo hanno reso sempre più insicuro dalle dinamiche della precarietà. La seconda parte, a compendio, affronta tutte le strade per invertire la rotta, riprese alla luce dello scenario contemporaneo e in chiave propositiva. Non mancano, infatti, riferimenti al dibattito sull’istituzione del salario minimo orario, sul reddito di base universale, sul valore e la centralità della contrattazione collettiva per migliorare le condizioni dei lavoratori, il ruolo dei sindacati e le discrasie che inevitabilmente si innestano in un gioco di forze sulla pelle dei lavoratori – che sono sì protagonisti, ma agenti passivi. Nell’intera trattazione è forte la dialettica tra la prospettiva economica, centrata sulle condizioni strutturali, e quella culturale, che guarda al lavoro come elemento di costruzione delle identità attraverso la leva ricattatoria dell’etica. In questo senso il concetto di lavoro è visto come un fenomeno non solo economico, ma soprattutto politico.
Il testo, quindi, contribuisce all’ormai annosa riflessione sulla necessità di ridurre l’orario lavorativo ed è questa l’idea di fondo del volume: «[…] oggi lavorare meno è un traguardo che, forse, a differenza dei un tempo, non si può raggiungere ex lege normando la durata della giornata lavorativa, ma richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. Le caratteristiche del lavoro sono quindi condizioni sì necessarie, ma non sufficienti. È infatti indispensabile un cambiamento di paradigma che crei innanzitutto spazi di legittimità politica per questa opzione al di là della sua mera sostenibilità economica». Per l’autore, infatti, è possibile perseguire la strada di una riduzione della centralità del lavoro nella vita delle persone, ma il presupposto è anzitutto culturale e deve partire dal basso. La presa di coscienza di masse di lavoratori che cominciano a svegliarsi dall’incubo dell’iperlavoro e dello sfruttamento dimostrano che questo è possibile. I legislatori, d’altro canto, potrebbero (dovrebbero) liberarsi dal giogo dei mercati e aderire ai patti sociali in cui è l’uomo al centro, non il lavoratore, con la sua dignità. Il lavoro, insomma, può uscire dall’orizzonte della necessità e dell’obbligo.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche
Autore: Sandro Busso
Editore: Gruppo Abele – Collana i Ricci
Anno di pubblicazione: 2023
Pagine: 191 pp.
ISBN: 9788865793046
Prezzo: 14,00€