Temi di cura, pari opportunità, valorizzazione della diversità sono chiavi che contribuiscono a un duraturo successo aziendale. E Danone, multinazionale francese dell’alimentare, lo ha compreso e introiettato nella sua missione aziendale grazie alla visione di Sonia Malaspina, direttrice relazioni istituzionali, comunicazione e sostenibilità del Gruppo. Per Malaspina una buona azienda non è fatta solo sani di bilanci economici, ma anche di persone che se rese felici contribuiscono grandemente al suo successo. In questo senso, le donne sono una leva fondamentale: la maternità e i carichi di cura non possono essere un ostacolo per la carriera della popolazione femminile. Provvedere a rimuovere questo certo tipo di cultura giova alla società e all’economia. “Il futuro del lavoro è donna”, cita Malaspina, che in questa intervista a Il diario del lavoro, ripercorre tutti i traguardi di quella che è una vera e propria missione.
Dei temi di cura, pari opportunità e valorizzazione della diversità lei ha fatto una missione della sua carriera.
È stata ed è la mia missione. L’ho scelta anche, da donna, sono passata per l’esperienza della maternità. Ho fatto 25 anni di direzione risorse umane e da un anno mi occupo di relazioni istituzionali, comunicazione e sostenibilità. Tutto questo, quindi, nasce da un mio vissuto personale, dall’essere contemporaneamente mamma e dirigente di un’azienda, responsabile a mia volta di altre persone, e dal dialogo proprio con queste persone, dove ho sempre avuto al mio fianco le rappresentanti e i rappresentanti sindacali interni ed esterni dell’azienda.
In particolare i temi genere occupano uno spazio molto importante nella sua azione. Quale il percorso che ha intrapreso e i risultati conseguiti?
Nel 2011 arrivo nella divisione alimentazione infantile di Danone, che ai tempi era Mellin oggi confluita Danone, e vedevo il 50% della popolazione femminile in grandissima difficoltà soprattutto nella percezione del luogo di lavoro e nelle percentuali di ingaggio. Studiavo a vedere tutte le indagini sul clima aziendale, parlavo con le persone, e ho posto la sfida all’allora amministratore delegato proprio sui temi attinenti al nostro target, cioè i genitori: quindi la maternità, la paternità, l’alimentazione. I genitori, che sono il 70% della nostra popolazione aziendale, erano in grande difficoltà, soprattutto le mamme. Proprio per questo sono partita dal tema delle donne. L’amministratore delegato ha colto subito la sfida, anche per restituire coerenza tra quanto fatto internamente ed esternamente. Da lì è iniziato un bellissimo percorso che ho condiviso con la mia controparte sindacale, il segretario nazionale della Fai-Cisl Massimiliano Albanese, con il quale abbiamo creato un vero e proprio welfare. All’indomani della crisi del 2008 la contrazione del potere d’acquisto delle famiglie è stata fortissima e la rappresentanza sindacale, vicina ai lavoratori, in Mellin era elevatissima. Il sindacato, quindi, era il primo contatto con le persone e ne hanno intercettato i bisogni, soprattutto delle donne, per poi scrivere insieme quella che poi è diventata una policy di genitorialità estesa a livello mondiale in Danone, ma che è partita da noi, dall’Italia. Fin da subito, nel 2012, abbiamo sancito l’importanza del welfare, cioè l’importanza dell’essere vicino alle famiglie e alle persone in una maniera concreta. Con il sindacato abbiamo creduto in questo strumento e di fatto, l’applicazione della policy negli anni – adesso siamo quasi al 14º – ha dato dei risultati straordinari in termini di rientro delle donne in azienda e di adesione dei padri a tutti i giorni di paternità retribuita obbligatori. Ciò è dimostrato da indicatori economici molto importanti – tra cui la riduzione a zero del turnover, l’alto ingaggio delle persone, la riduzione del burnout, la mitigazione di un ambiente lavorativo malsano, il 30% del premio di produzione destinato a chi consuma tutte le ferie dell’anno, che vuol dire prendersi cura delle persone attraverso periodi di riposo che sono fondamentali per recuperare le energie psicofisiche. È un percorso percorso pieno di significato e di impatto, sia a livello economico che in termini di competizione aziendale. Oggi in Danone abbiamo il 55% di donne manager che sono cresciute, negli anni, grazie a politiche dove la maternità non è vissuta come una penalizzazione, ma come un momento naturale per la donna che sceglie di viverla. In pratica abbiamo introdotto le politiche di cura nella gestione del personale.
Quindi sono questi i presupposti per la nascita del Manifesto per la parità di genere, recepito nell’accordo Accordo Sindacale di Secondo Livello firmato da Danone e le parti sociali il 22 gennaio 2024. Può spiegarci in cosa consiste?
Dal 2022 abbiamo conseguito la certificazione per la parità di genere e, nel mio nuovo ruolo, ho pensato di estendere questa attenzione anche sollecitando la catena di fornitori di Danone – 500 piccole e medie e grandi aziende italiane – a entrare nello stesso percorso di certificazione della parità di genere che contiene supporto alla genitorialità, all’occupazione femminile, alla crescita femminile, al divario zero salariale tra uomo e donna. Nelle gare per l’acquisto di beni servizi, come Danone riconosciamo una premialità alle aziende che si inseriscono nel percorso di cura delle persone. Non è ancora un gate e non è che sin assenza della certificazione si è impossibilitati a partecipare alle gare – al momento sono 5.000 le aziende certificate in Italia – però da capofila possiamo trasmettere valori e anche strumenti concreti (un know how, delle policy). È uno stimolo per i fornitori e le altre aziende. Il documento, che è anche oggetto di un accordo sindacale di secondo livello, ha come obiettivo quello di affrontare tutte le sfide post-pandemia e per le quali l’occupazione femminile è un fattore strategico anche per aumentare la competitività aziendale. Ma non solo: aumenta anche la natalità, perché laddove le donne lavorano nascono più figli ed è quindi qualcosa di positivo da incoraggiare. Successivamente Winning Women Institute, società benefit che accompagna le aziende alla certificazione e alla cui presidenza c’è Paola Corna Pellegrini, mi ha proposto di farne un vero e proprio Manifesto da portare fuori da Danone e di fatto, ad oggi, è stato sottoscritto da 50 soggetti – più di 30 aziende proveniente da svariati settori, ma anche associazioni e persone fisiche che si fanno poi promotori. Questo vuol dire migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori della propria filiera e queste tematiche possono diventare uno strumento di business. I primi dieci grandi fornitori di Danone si stanno tutti certificando, perché hanno capito che la leva dell’occupazione femminile è molto importante. Così si innesca un circolo virtuoso.
Ed è in questo senso che lei parla di creazione di valore economico e sociale attraverso i temi di cura, pari opportunità e valorizzazione della diversità?
Sì perché le aziende, soprattutto le capofila come Danone, hanno in mano una catena di fornitura, soprattutto di aziende locali, che non hanno tutti i mezzi e i reparti ben strutturati per arrivarci da sole. Noi possiamo trasmettere questo know how, tra l’altro gratuitamente perché ce l’abbiamo a disposizione. È una sensibilizzazione della propria catena ed anticipativa di tutto quello che chiederanno le varie direttive sulla corporate social sustainability directing che nei prossimi anni porteranno le aziende – delle dimensioni di Danone e via via anche quelle più piccole – a redigere accanto a un bilancio economico anche un bilancio di sostenibilità. Quindi diventa un fattore di competitività e attrazione tra e di investitori e candidati, soprattutto appartenenti alla nuova generazione che chiede un maggiore bilanciamento tra la vita personale e la vita lavorativa. Quando l’imprenditore o comunque il gestore delle aziende lo comprendono, indirizzano così le loro politiche e anche quelle da 35 dipendenti stanno applicando questo principio soprattutto in settori fortemente femminili, dove quindi la risorsa è importante perché altrimenti non troverebbero altro.
Quale lo stato del settore in tema di parità di genere?
Al rientro la maternità raccolgo ancora tantissime testimonianze di persone penalizzante. Bisogna fare un lavoro culturale, di cambiamento. In altri Paesi, per esempio la Spagna, questo sta avvenendo perché la legislazione ha fissato a quattro mesi il congedo di paternità, capendo che la cura dei figli è anche di competenza maschile. Noi siamo ancora un po’ indietro. Io ho visto comunque delle cose nuove in questi anni e sono positiva, ma è chiaro che c’è un bel lavoro da fare in termini di servizi alle famiglie.
Ma visto che è rapporto win-win tra azienda e dipendenti, come mai tante realtà non applicano questo tipo di policy virtuose? Non lo hanno compreso o ci sono problemi strutturali/di visione?
Secondo me è un problema di visione. Permane certo un’ideologia che induce le donne a scegliere tra carriera e famiglia, ma ci sono anche situazioni in cui non si hanno gli strumenti per gestire la maternità in maniera ottimale. Se ci si rende davvero conto quanto le donne contribuiscano alla competitività dell’azienda, occorre agire per davvero. Il mio obiettivo è stimolare le grandi aziende a fare qualcosa per la propria filiera: sulla questione femminile, sull’ambiente, così come urgentemente sulla sicurezza del lavoro. Il capofila ha un ruolo cruciale nel muovere la propria catena di fornitura, è una leva su cui anche il sindacato può dare una mano. Stimoliamo la nostra catena ad aderire a questi valori e, dopo un anno di esperienza in Danone, posso affermare che ciò è possibile e crea un effetto domino su realtà che altrimenti non raggiungibili.
Su questa visione quanto incide il tracollo demografico che stiamo attraversando?
Siamo un Paese in pieno inverno demografico e ci sarà sempre di più un’esplosione della silver economy. L’anzianità e la fragilità sono un elemento molto presente nella vita delle persone.
Per questo avete messo a punto anche la Caregiver Policy?
Sì, l’abbiamo realizzata nel 2020 per coloro i quali accudiscono genitori anziani e i fragili. Nelle aziende non se ne parla abbastanza e sono pochi coloro i quali chiedono la 104, ma è qualcosa con cui le persone fanno e dovranno fare i conti. Anche questo è un percorso da incoraggiare.
Che ruolo ha in questo il sindacato?
Il sindacato ha una grandissimo ruolo in questo cambio culturale. Come azienda si può stimolare una filiera, ma il sindacato può stimolare le riflessioni all’interno delle proprie relazioni. Sono macrotemi che purtroppo non si risolvono facilmente: non è che se risolti in un’azienda sono risolti in tutta l’Italia. All’epoca del documento che ha dato vita alla politica di genitorialità – 2011 – nessuno parlava di maternità: era un vero e proprio tabù in azienda e se ne parlava solo quando si verificava. Restava qualcosa di non detto, da non menzionare. Oggi fortunatamente se ne parla in molte aziende e finalmente si sta muovendo qualcosa.
Ma secondo lei se ne parla perché è giusto parlarne, perché è un diritto, o perché è in corso un emergenziale inverno demografico?
L’inverno demografico è un fattore decisivo. Abbiamo toccato il picco massimo di nascite nel 2007-2008 e poi c’è stata una discesa. Sicuramente questa è un’emergenza come il trend dell’invecchiamento. Nel 2050 avremo un’Italia completamente ribaltata, come certifica anche la Banca d’Italia, con un sistema pensionistico a rischio e quindi una situazione di non sostenibilità. In questo senso, da una parte, come dice Silvia Zanella, “Il futuro del lavoro è femmina”: l’economia digitale, per esempio, richiede delle competenze e un’attitudine che sono caratteristiche del mondo femminile – meno aggressività, meno competitività, più lavoro di squadra, competenze che si sviluppano in modo particolare nelle esperienze di cura. Nella digitalizzazione, poi, la forza fisica non è l’elemento chiave e ormai anche le fabbriche sono computerizzate. Dall’altra occorre fare qualcosa sulla natalità: con la contrazione del potere d’acquisto, un solo stipendio non basta più in famiglia, soprattutto in metropoli come Milano o Roma dove abbiamo un costo della vita molto alto. Quindi si è creata necessità di lavoro femminile.
A questo proposito una recente indagine ha rilevato che al rientro in azienda dopo il congedo il 94% dei neogenitori si sente nervoso e nel Manifesto si parla anche di questo. Da cosa scaturisce questo sentimento?
Sostanzialmente non si applica una politica di ascolto. Bisogna capire in che stato si trovano le persone all’interno dell’azienda. È chiaro che ci si trova in una situazione di pressione, perché oltre al tuo lavoro e alla tua vita hai anche tutta una serie di responsabilità ulteriori. Se l’azienda non intercetta la temperatura della sua popolazione lavorativa è difficile che si creino ambienti lavorativi dove le persone hanno voglia di andare. Con il sindacato, nel 2011, avevamo identificato cosa stava succedendo in quel 50% di forza lavoro femminile: Non davano il part-time alle mamme che rientravano dalla maternità e c’erano mestieri il cui accesso era precluso alle donne per il pregiudizio di inconciliabilità tra il lavoro di cura e l’area manager. Chi voleva andare in maternità era impaurita dal rientro perché avrebbe avuto possibilità di carriera o di aumento di retribuzione pari allo zero. È per questo che si genera nervosismo. In queste circostanze, il datore di lavoro e le parti sociali hanno una grandissimo impatto, non solo per cambiare le regole organizzative ma anche la vivibilità all’interno di un’azienda. Puoi anche realizzare una grande policy che ti dia grande visibilità, ma quello che conta è creare davvero un ambiente in cui le persone si sentano libere e non penalizzate. Una cosa è l’azienda che implementa davvero le policy, il welfare, i piani e li applica per far vivere bene le sue persone, un’altra e quando si fa solo un’operazione di cosmesi e comunicazione dove però non cambia sostanzialmente nulla. Il welfare non lo compri a supermercato, bisogna capire dove sono indirizzate le preoccupazioni della tua popolazione.
Quindi per alcune aziende non rientra il genitore ma il lavoratore, che nei confronti del proprio datore ha un rapporto di sudditanza.
Tra le persone bisogna che si instauri un rapporto tra adulti. È nella responsabilità dei manager, ma anche delle persone stesse. Le parole chiave sono reciprocità, partecipazione e responsabilità.
Ma perché le donne italiane non fanno più figli?
L’Istat ci dice che il desiderata sono due figli per coppia, ma la realtà è 1.2. Secondo me tra quel desiderata e la realtà ci sono fattori di tipo economico e lì la normativa dovrebbe far qualcosa. Per esempio l’assegno unico familiare è uno strumento molto importante, la la cifra è molto bassa rispetto ad altri Paesi: oltre 3,6% di Pil la Germania e il 4% la Francia, mentre noi siamo all’1,2. Si è fatto qualcosa, sì, ma bisogna fare sempre di più. Sicuramente, quindi, pesa il fattore economico, ma c’è anche un fattore di tipo culturale: se la cura è solo sulle spalle della donna e la donna ha un lavoro, mette sì in conto il fattore economico ma anche quello organizzativo – come la presenza di servizi pubblici e la ripartizione dei carichi tra uomo e donna. Quando abbiamo posto l’obbligatorietà nel congedo di paternità, prima di cinque giorni e oggi siamo a venti, è stato per “liberare” l’uomo che ne fa richiesta dai timori di essere penalizzato e per normalizzare in azienda il fatto che anche un papà si occupi dei figli. Per avere un miglioramento è tutto il sistema che deve andare in contro alle esigenze genitoriali, altrimenti le nascite continuano a scendere anno su anno.
Ci sono policy per incoraggiare la parità il rispetto tra i lavoratori?
Tra i lavoratori no, ma negli anni ho visto un accresciuto senso di solidarietà tra le persone, che è un fattore bellissimo perché di fatto un lavoratore si sente non affogato dai propri colleghi, ma supportato. In questo conta molto l’atteggiamento del manager, cioè non alimentando la competitività e l’aggressività tra le persone ma incentivando la cooperazione. L’economia digitale, per esempio, richiede proprio questo: molta più cooperazione nelle modalità di lavoro. È nell’interesse dell’azienda in primis, ma anche delle persone stesse creare degli ambienti lavorativi non tossici.
Quanto c’è ancora da fare nel modo aziendale su questi temi?
C’è ancora tanto da fare. “Il Congedo originale – Perché le aziende temono la maternità” è il titolo del libro che ho scritto in pandemia con la mia collega Marialaura Agosta che appartiene alla generazione dei trentenni in cui abbiamo esposto due punti di vista generazionalmente diversi. In quel periodo le donne perdevano il posto di lavoro nel 99% dei casi e il libro parla della condizione della maternità nei luoghi di lavoro, avvalendosi del contributo di tante esperte. È un libro che si rivolge a chi nelle aziende prende le decisioni, per sottolineare che sono proprio loro a fare differenza nella vita delle persone, non solamente gestendo il cedolino. È una scelta imprenditoriale: questa è un’area strategica e dopo 14 anni posso dire che questa scelta paga e ti ripaga grandemente dei costi. Ma vedo un clima più consapevole e se ne parla molto. Solo qualche anno fa, per esempio, la certificazione non c’era e adesso che c’è non può restare solo dichiarato delle aziende.
E la politica, invece, si sta muovendo abbastanza?
Potrebbe fare sempre meglio. Le politiche cambiano la vita delle persone. Secondo me i due temi principali sono il supporto sulla parte economica e la migliore distribuzione della cura tra uomo e donna, che può passare da un congedo retribuito obbligatorio anche per i padri, al momento in Italia fermo a dieci giorni. Altri Paesi hanno fatto dei balzi in avanti negli ultimi anni, perché hanno capito che il valore dell’occupazione femminile è da preservare, da incoraggiare e da stimolare. Secondo me le istituzioni possono incrementare ulteriormente quanto fin qui realizzato, soprattutto se pensiamo che la percentuale di Pil speso in politiche familiari è di un terzo rispetto a quella di Germania e Francia. La Spagna era molto arretrata e ha fatto passi da gigante negli ultimi anni, quindi anche per noi è possibile. L’Italia è il Paese che invecchia di più al mondo dopo il Giappone, per cui bisogna fare un piano nazionale, qualcosa che lavori sul lungo periodo. Anche i migranti, se inclusi, aumentano il tasso di natalità allargando la base dei contribuenti al sistema fiscale e pensionistico a beneficio di tutti.
Ma è la Spagna, un’economia simile alla nostra, ad aver fatto passi avanti o siamo noi ad averne fatti indietro?
Noi siamo timidi nei provvedimenti posti in atto. Occorre frenare la decrescita delle nascite. Ma non è compito solo sono delle istituzioni: anche le aziende svolgono un ruolo fondamentale, così come il sindacato e le persone. È un lavoro collettivo.
Elettra Raffaela Melucci