Non chiamiamola “classe media”: evoca periodi lontani, in cui la divisione in classi era concreta e la coscienza di appartenere a una di esse spingeva a lottare per difendere o conquistare spazio a scapito delle altre. Il termine “ceto medio” è più generico, più sfumato e normalmente ricondotto alla dimensione reddituale, ma proprio qui sta il limite: da una recente ricerca svolta da Censis per conto di CIDA, il 60,5% degli italiani ritiene di appartenere al ceto medio.
Sulla carta, una tale maggioranza dovrebbe avere un potere enorme, essendo in grado di determinare il colore di qualunque governo, senza dipendere eccessivamente da sussidi, come invece il ceto “popolare”, e senza temere l’esproprio della propria ricchezza, come quello “benestante”.
E invece accade il contrario: frammentato in tante categorie, composto da percettori di rendite, pensionati, lavoratori, a loro volta suddivisi – e spesso messi in contrapposizione dalle norme fiscali – tra autonomi e subordinati, sostiene quasi integralmente il prelievo fiscale e contributivo, ricevendo in cambio bonus di modesta entità e la difesa di qualche privilegio.
Per ottenere questi limitati risultati deve apparire quanto più possibile bisognoso di aiuto da parte della politica, e perciò ciascuna categoria tende sempre a identificarsi con i casi più sfortunati: i lavoratori discontinui, precari e cassintegrati, i piccoli imprenditori sopraffatti dalle multinazionali, le famiglie con figli (sic!), i single, i pensionati con la minima e così via.
Accade così che il c.d. “ceto medio” abbia tanti difensori – sindacati, associazioni di rappresentanza, attori sociali e culturali – in lotta aperta o sotterranea tra loro, quasi sempre insoddisfatti del rapporto con la politica, ma pronti a fare cassa di risonanza ogniqualvolta un governo prometta, conceda qualcosa o anche solo ritiri una minaccia. Una difesa che replica i meccanismi pauperisti della difesa dei ceti meno abbienti.
E accade che l’attuale governo confonda il ceto medio con una ridotta platea di lavoratori autonomi, ai quali promette risparmi fiscali palesi ed occulti, mentre allarga le braccia e rinvia ad impossibili tempi migliori le azioni rivolte a quadri e dirigenti. Senza il pregiudizio ideologico di governi precedenti, ma è una magra consolazione.
Una situazione senza apparente uscita; fino a quando la visione della società rimarrà statica e la rappresentazione sarà una fotografia, ben difficilmente le cose cambieranno.
Se guardassimo invece il “film” vedremmo con grande chiarezza che il problema – e anche la chiave dell’evoluzione sociale nelle generazioni passate – è la crescita. Difendere una categoria, un gruppo di persone con lavoro e reddito simili, dovrebbe significare lottare affinché quelle persone escano da quella categoria, migliorando le loro condizioni. Non è patologico avere un basso reddito se si è giovani, se si è immigrati, se non si ha un livello di competenze medio-alto; ma per quanto tempo le persone rimangono in quello stato? Cosa serve per riattivare l’ascensore sociale? Quali sono i casi di successo, come incentivarli e farli crescere di numero?
Non sono le diseguaglianze, che variano di poco nel nostro paese di anno in anno, ma le divergenze di prospettive, tra chi si aspetta di crescere e chi teme di perdere reddito e ruolo sociale.
Queste sono le domande a cui la politica dovrebbe rispondere, ma serve anche qualcuno che le ponga. Serve un cambio di paradigma: la tassazione sulle persone fisiche ha una progressività elevatissima a partire da un reddito di € 35.000 e a 50.000 si pagano tasse da veri ricchi; le leggi sulle PMI tendono a favorire il mantenimento della piccola dimensione; le no tax area, i limiti forfetari sono strumenti che incentivano a rimanere sotto un certo livello di reddito.
Un’efficace difesa del ceto medio assomiglierebbe più a … un attacco.
Richiederebbe l’unione delle molte forze in campo per disegnare, e imporre alla politica, un modello di welfare pubblico più limitato, ma più coerente, lasciando molto più spazio al welfare complementare. Si tratta di partire dalle migliori esperienze di previdenza e assistenza sanitaria integrative, per estendere l’ambito alla formazione e alla difesa dei rischi. In forma contrattuale bilaterale ove possibile – e l’ambito è molto più ampio di quello attuale – ma favorendo comunque l’aggregazione di gruppi e persone in forme collettive, più efficaci e sostenibili.
Nella contrattazione collettiva servirebbe una chiara scelta, e una coerente politica economica, a favore di una crescita delle retribuzioni, senza inseguire il disastroso miraggio del basso costo del lavoro, che porta solo a mantenere sul mercato aziende deboli e sacche di marginalità.
Sarebbe bello un giorno poter dire che l’Italia non è un paese per poveri. Non nel senso che li mette da parte o non vuole che vi immigrino, ma che ha trovato il modo per farli uscire, rapidamente, da quello stato.
Mario Mantovani