“Arriva sempre il momento in cui non c’è altro da fare che rischiare”. Questo detto dal Nobel J. Saramago calza a pennello con il rientro sulla scena europea ed italiana della politica industriale da troppo tempo messa fra parentesi dalla politica. Il risveglio dell’interesse lo si deve principalmente al Manifesto Draghi, ma non è un caso che anche la recentissima Assemblea della Confindustria abbia messo al centro di un mutamento complessivo di comportamenti la questione industriale. È forse troppo presto per immaginare che tale tema torni ad essere una costante dell’azione politica ed economica, ma di certo difficilmente potrà essere esclusa dalle priorità cui si deve tendere. La relativa freddezza con la quale le proposte del documento Draghi sono state accolte non deve ingannare. Draghi inserisce nel suo ragionamento, in parte ambizioso ed in parte necessitato dalla realtà che l’Europa sta vivendo, un elemento che non può essere ignorato: la geopolitica, vale a dire l’esigenza non rinviabile di competere nel mondo come potenza unitaria e lo spiega chiaramente: “se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, contemporaneamente, un leader delle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica, un attore indipendente sulla scena mondiale. E non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale”. Va dunque compiuto uno sforzo straordinario il cui perno dovrà essere la ricostituzione di un patrimonio industriale minacciato in modo sempre più evidente dalla deindustrializzazione indotta principalmente da ciò che accade in Cina e negli Stati Uniti. Uno sforzo di…comunità, suggerisce il Presidente della Confindustria, utilizzando un termine inusuale per la organizzazione degli industriali, ma che segnala l’urgenza, oltre che l’importanza, di una risposta Paese al lungo calo della produzione industriale italiana che pure regge in virtù della conquista da parte dei nostri prodotti di quote di mercato internazionale.
Del resto, da noi, dal 2015 che non si affronta come si dovrebbe il problema del ruolo, della qualità e del peso della produzione industriale nella economia nazionale, il famoso industria 4.0. E non si era ancora alle prese con l’irruzione della intelligenza artificiale sempre più aggressiva nei contesti produttivi e sociali.
Non si può di conseguenza perdere l’opportunità di restituire alla politica industriale quella capacità strategica che gli è stata negata per troppi anni. Una capacità strategica che va suddivisa fra i diversi attori in campo: in primo luogo lo Stato in una nuova dimensione di promotore e coordinatore dello sviluppo produttivo e quindi con una efficienza della Pubblica Amministrazione ben diversa dall’attuale ed una vicinanza ai corpi intermedi che fra l’altro mette in discussione quella autoreferenzialità della politica che ha contribuito ad inaridire il confronto sulle scelte da compiere per assicurare un futuro di lavoro ed una sicurezza economica reali.
Al di là della sordità di un certo mondo politico le riflessioni su questa materia non mancano e ne è riprova lo stesso fruttuoso lavoro compiuto nel CNEL dove sono presenti le rappresentanze dei corpi intermedi.
Un lavoro che punta ad individuare le falle che stanno minando settori importanti del made in Italy, producendo ritardi nell’innovazione, impedendo di procedere nella conquista di una autonomia essenziale sui vati terreni oltre a quello energetico. E proprio sul delicato scenario dell’energia si rafforza la convinzione che la decarbonizzazione non possa essere compiuta a scapito della tenuta industriale anche perché nel frattempo altri protagonisti mondiali come la Cina nel settore dell’auto sono in grado di approfittare delle contraddizioni non risolte nella nostra economia come in quella europea.
Si tratta in definitiva di comprendere che è giunto il momento di assumere collettivamente i rischi che nascono dai cambiamenti, saperli gestire per proiettarci in un futuro nel quale sono chiare le priorità e le strategie.
Ed è per tale motivo che le sollecitazioni di questo periodo puntano innanzitutto a ricostruire una identità industriale ed attorno ad essa individuare tutte le azioni possibili dei vari soggetti utili ad evitare il declino.
Vanno pertanto utilizzati tutti quegli spazi di confronto e di approfondimento che sono a disposizione e che possono riallacciare fasi di impegno comune rispettando le varie autonomie ed i diversi ruoli.
La politica industriale non è un semplicemente segmento del più ampio mondo del lavoro. Può invece tornare ad essere anche terreno di ricerca per rimettere insieme più aspetti della vita economica e sociale, come del resto avvenne nel periodo della ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale. Lo stesso Draghi con il riferimento al piano Marshall fa capire che si deve uscire da un cono d’ombra politico ed economico che può peggiorare e rendere assai più gravosa l’eventuale risalita dell’economia europea con il suo benessere.
Naturalmente una nuova centralità della questione industriale richiede un grande sforzo di investimenti che non è possibile senza una visione comune dei destini economici europei. Quella consapevolezza che aveva dato origine al famoso piano Delors nel quale il primato della collaborazione si accompagnava alla speranza di una più forte unione politica e quindi con il rigetto delle istanze nazionaliste. La vocazione politica non può mancare anche in questo caso e richiama anche un compito attivo delle forze sociali che non possono non incalzare governi e forze politiche in questa direzione in quanto sanno bene che il destino di un’Europa forte e sicura poggia inevitabilmente su una maggiore coesione nella quale trovano posto diritti e dignità del lavoro.
La speranza è che non si tratti di un fuoco di paglia e che l’Europa non si trascini nelle sue ambiguità costringendo tutti a compromessi paralizzanti. Il mondo va parecchio di fretta e non c’è comprensione per chi rimane indietro. Non si può disertare dalla necessità di padroneggiare ed orientare i cambiamenti in atto. Questa volta l’Europa è chiamata ad un severo esame di coscienza e di coraggio. Non è un percorso agevole per dipanare gli interrogativi che abbiamo di fronte, ma non ci sono…domande di riserva.
Paolo Pirani