Tornano a fiorire le polemiche sullo stato di salute della contrattazione nel nostro paese. Alle prime nuvole sulla trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici si sono fatti di nuovo avanti i detrattori a dire che l’impianto non funziona, che i salari non crescono, che le regole non sono attuate e forse nemmeno attuabili. Che qualcosa non funzioni perfettamente è un dato di fatto. Ma la verità è che nell’industria le regole funzionano. Cristina Casadei su Il Sole 24 Ore ha spiegato qualche giorno fa con molta precisione che sono i servizi e, in parte, l’artigianato, a non funzionare, così come non funziona l’intero settore pubblico. I rinnovi si fanno attendere anni e anni e ciò si tramuta inevitabilmente in un rallentamento dei salari.
Nell’industria invece i contratti vengono rinnovati con minimi ritardi, quando ci sono. Il che non significa che i salari mantengano integralmente il loro potere di acquisto. Questo non accade perché il recupero avviene comunque in ritardo rispetto al sorgere dell’inflazione, e poi perché il sistema dell’Ipca prevede che non tutta l’inflazione venga recuperata, non quella che deriva dalla crescita dei prezzi dei prodotti energetici importati, proprio quella che è stata la causa della bolla inflattiva di questi due anni. Anche qui c’è evidentemente bisogno di un cambiamento, che peraltro sta avvenendo, come dimostra il caso dei meccanici che, grazie alle nuove regole che si erano imposte, hanno potuto far fronte all’inflazione.
Il problema di molte categorie dell’industria è che il settore è composto da unità produttive molto differenti tra loro. Grandi, medie, piccole e piccolissime aziende: non è semplice mettere assieme gli interessi di tutte queste differenti realtà. Le grandi aziende per lo più non hanno problemi e la contrattazione, anche quella di secondo livello, si svolge naturalmente e con reciproca soddisfazione delle parti. Lo stesso, più o meno, avviene anche nelle medie aziende, che hanno capacità di resilienza. I problemi arrivano per le piccole e piccolissime aziende, che spesso si collocano su posizioni borderline e non sono in grado di sopportare aumenti di costo troppo elevati. E nessuna federazione di categoria può accettare soluzioni contrattuali che aggravino i costi di queste aziende che rischierebbero di uscire dal mercato. È il ragionamento che Federmeccanica ha opposto alle richieste salariali avanzate dai sindacati di settore.
È a questo punto che da alcune parti, a volte con insistenza, si torna ad avanzare la teoria di dare spazio al contratto di secondo livello piuttosto che a quello nazionale. Le aziende piccole non ce la fanno, dicono, lasciamo che siano i contratti aziendali a far crescere il salario calibrando gli aumenti a seconda della potenzialità della singola impresa. Il punto è che la contrattazione di secondo livello interessa, se va bene, il 30% dei lavoratori, per cui ci sarebbe un forte squilibrio all’interno di ciascuna categoria. Non sarebbe equo e farebbe diminuire le risorse in mano ai lavoratori creando problemi di macroeconomia, perché i salari servono ad acquistare merci. Se i lavoratori hanno meno soldi cala immediatamente la domanda nel mercato interno, che è proprio uno dei problemi centrali del nostro sistema economico.
Il doppio sistema di contrattazione, l’abbinamento di contratti nazionali e aziendali, è una grande conquista sindacale e sarebbe sbagliato rinunciarvi, anche perché è proprio su questo sistema che si fonda gran parte della coesione sociale. Del resto, chi lavora in una grande azienda ha sempre qualche vantaggio in più. Guadagna di più grazie alla contrattazione di secondo livello, ha maggiori benefici in termini di welfare, ha più sicurezza sulla stabilità del proprio posto di lavoro. Una volta c’era anche, e contava, la fierezza di appartenere a una grande famiglia, ma questa è storia passata.
Forse allora è meglio andarci piano con le proposte di intervenire pesantemente sul sistema di contrattazione. Il che non significa che non ci si debba rimettere le mani, ma sapendo bene cosa fare. La cosa migliore potrebbe essere quella di tornare al passato, quando i contratti d’azienda, soprattutto quelli delle imprese maggiori, servivano a introdurre e a sperimentare le novità, dopo di che erano i contratti nazionali ad allargare queste innovazioni. Allo stesso modo i governi dovrebbero smettere di rinnovare i contratti dei pubblici dipendenti dopo anni e anni dalla loro scadenza. E i contratti più difficili, come quelli del terziario, dovrebbero essere favoriti dalla partecipazione alle trattative di tecnici del ministero del Lavoro, soprattutto quando queste languono. Non ci risulta che la ministra del Lavoro abbia mai visto da vicino un tavolo di trattativa. Forse sarebbe il caso di farlo.
Massimo Mascini