Confesso che il termine “politica industriale” mi ha sempre evocato una forma di dirigismo compresa tra lo statalismo socialista e il neo-feudalesimo in cui sono cresciute molte dinastie imprenditoriali.
E tuttora tendo a diffidare dei politici e dei governi che promettono d’imprimere una spinta decisiva in settori articolati, complessi, globalizzati, o innovativi, scrivendo norme e mettendo risorse finanziarie destinate rimanere sulla carta, ottenuto l’effetto dell’annuncio.
Ma l’economia che ho conosciuto e praticato per decenni era soprattutto definita in base a “cosa desiderano i consumatori, che prezzo sono disposti a pagare, dove produrre e come distribuire” e in questo tipo di economia è ben difficile che dagli uffici di un ministero si possano trovare soluzioni più efficaci rispetto a quelle dei manager e degli imprenditori.
Quella fase economica è terminata, con il compimento della globalizzazione. L’adozione, praticamente generalizzata, del modello economico “capitalista”, pur con rilevanti differenze, soprattutto nei paesi non democratici, non ha certo prodotto la “fine della storia”, ma ha consentito di abbattere le pesanti barriere commerciali che ancora dividevano il mondo, meno di mezzo secolo fa.
Da quel processo sono emerse due super-potenze – Usa e Cina – e molte potenze macro-regionali, anche di grandi dimensioni; le specificità culturali, territoriali, religiose hanno ripreso rilevanza e connotano sistemi economici e politici distinti – e in larga parte conflittuali – ma fortemente collegati. E poi c’è L’Unione europea, una potenza … in potenza.
Il recente rapporto Draghi sulla competitività, abbandonando gli sterili confronti tra paesi europei (lasciamo queste gare alla Champions e alla Nations League di calcio), rappresenta una grande potenza globale, con il potenziale per colmare i gap nei confronti di Cina e Usa, con un modello di sviluppo più innovativo e sostenibile, con una pluralità che da limite può divenire ricchezza.
Alla “potenza Europa” serve una politica industriale, e più in generale una politica economica, intesa come la capacità di fare scelte, di creare strumenti normativi e finanziari, di favorire l’aggregazione e la creazione di network tra imprese, università, enti e organizzazioni sociali. Una politica che punti a eliminare gli strumenti parziali, e spesso distorsivi, adottati dai singoli paesi, abbandonando la sterile competizione nazionale per giocare davvero nel massimo campionato.
Economicità nel medio-lungo termine, sicurezza, coesione sociale: sono queste le variabili di una vera politica economica europea. Ma l’Unione saprà superare i mille vincoli posti dagli stati?
Potrà farlo solo se saranno i cittadini europei a chiederlo, partendo dalla società organizzata, dalle organizzazioni sociali e di rappresentanza, che hanno maggiore capacità di dare loro voce e d’incidere sulla politica.
Anche per queste organizzazioni occorre uscire da una visione particolare e avere il coraggio d’innovare. Le organizzazioni del management e delle imprese, i cui iscritti sono in prima fila nel guidare la trasformazione, devono prendere la bussola e indicare la via.
Mario Mantovani