L’Europa che verrà non è quella di Mario Draghi. L’idea di affidare all’uomo che ha salvato l’euro (e il sogno dell’euro) il compito di immaginare l’Europa del futuro e il percorso per arrivarci è nata – come il parallelo rapporto sul mercato unico di Enrico Letta, un altro europeista convinto – in un momento storico particolare. Quando il dramma dell’emergenza pandemia aveva posto i paesi europei di fronte ad una unica opzione (e, volendo, anche una unica emozione): rilanciare solidarietà, comunità di intenti, messa a disposizione delle risorse di tutti per tutti. In molti abbiamo pensato che fosse una svolta storica. Gli scettici hanno sempre detto che non sarebbe durata. Hanno avuto ragione gli scettici. Quel momento è passato. L’Europa va in direzione opposta. Il documento Draghi è nato morto. Il problema è che un’alternativa al declino irreversibile dell’Europa non esiste.
Il miracolo europeo che raccontano le statistiche degli ultimi decenni si fondava su tre presupposti. Uno, la disponibilità a basso prezzo dell’energia fornita dalla Russia. Due, la presenza di sterminati mercati di esportazione (la Ue è così attenta al commercio internazionale, perché di quello vive, mentre Usa e Cina dipendono di più dal mercato interno). Tre, l’ombrello militare americano e la pace nel continente, che consentivano di dirottare altrove le spese per la difesa. Nessuna di queste tre condizioni esiste più. Ecco perché i presupposti dello sviluppo europeo vanno reinventati. Le risorse umane, intellettuali, finanziarie, economiche – dice Draghi – esistono. Il problema è metterle in comune, perché, per trovare spazio vitale fra i due blocchi, americano e cinese, bisogna essere un altro blocco, di dimensioni demografiche ed economiche adeguate.
Non è la strada che fa intravedere l’attuale realtà politica europea. È possibile che alcune delle idee di Draghi, ad esempio sulla collaborazione in materia di difesa o sulle semplificazioni della burocrazia, trovino realizzazione. Ma l’idea di un’Europa che pensa ed agisce in chiave europea – la stessa rivendicata da Letta – non ha ali per volare. Gli eurobond che, nella misura di 800 miliardi l’anno (pari a tutto il programma postpandemia), dovrebbero finanziare il nuovo sviluppo sono stati impallinati al decollo. Sorte migliore non attende la proposta di una politica industriale di respiro e gestione europea, che sostituisca gli aiuti di Stato, nazione per nazione, assai più in sintonia, invece, con lo spirito dei tempi. Ed è vero che, per misurarsi sullo scenario internazionale con le grandi multinazionali, bisogna avere grandi multinazionali, ma si fa fatica ad immaginare i governi che accettano un mercato europeo delle telecomunicazioni aperto alla concorrenza, alla faccia dei campioni nazionali.
Manca tutto, allo scenario proposto da Draghi. I protagonisti politici, capaci di modificare i pesi sulla bilancia, decisivi in ogni passaggio della storia europea: il crepuscolo di Macron e Scholz annuncia sensibilità molto diverse alla guida del cosiddetto motore (francotedesco) europeo. I risultati elettorali, le proteste di piazza, i discorsi nei bar parlano un altro linguaggio. L’economia chiede protezioni, magari tariffe e dazi, e non liberalizzazioni. Le frontiere interne si chiudono agli immigrati, anche dove una emergenza immigrati non c’è, come in Germania.
Tutto questo Draghi lo sapeva, anche prima di noi. Allora, perché scegliere la strada dell’utopia, invece di esplorare i realistici compromessi di un sia pur stentato processo di riforma? Perché il messaggio fondamentale del lavoro di Draghi è che il tempo dei realistici compromessi è scaduto. I realistici compromessi possono solo accelerare la spinta dell’Europa alla frammentazione e, conseguentemente, alla irrilevanza. Il risultato è che il documento presentato da Draghi non è un Rapporto. E neanche un’Agenda. È un Manifesto. E, per questo, una straordinaria occasione, per le forze europeiste, di trovare una intesa e un terreno comune di battaglia.
Maurizio Ricci