La ricerca: un mondo animato da indefessi studiosi che prodigano le proprie esistenze al servizio del progresso dell’umanità intera. Custodi del sapere, i ricercatori macinano le proprie esistenze lungo un percorso di perenne disvelamento dello scibile, dissipando le ombre della misconoscenza e spostando l’orizzonte dell’ignoto ogni volta sempre più in là. Li immaginiamo un po’ così, al sicuro delle mura universitarie o dei laboratori, proni su scrivanie o con gli occhi cerchiati dagli oculari dei microscopi, a creare alchimie negli alambicchi o a portare alla luce un testo antico. Insomma, un duro lavoro, che qualcuno dovrà pur fare. Ma comunque un lavoro, che però in Italia non è riconosciuto tale: il dottorato, infatti, è inquadrato come percorso di studio, un periodo di formazione, e questa condizione, che si configura come una rarità nel sistema europeo, impedisce l’accesso a tutta una serie di diritti che impediscono miglioramenti del proprio status.
La denuncia, come ogni anno, arriva dall’indagine condotta da ADI, l’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia, che quest’anno arriva alla sua undicesima edizione con un ritratto preoccupante e anche inedito per il taglio conferitogli. Si tratta, infatti, della prima analisi mai realizzata a livello nazionale per sondare lo stato di salute mentale e di benessere delle dottorande e dei dottorandi appartenenti ai cicli in corso nella primavera 2022 (dal 36° al 38°). Tramite un questionario diffuso nei mesi di aprile e maggio 2023, l’indagine ha analizzato le condizioni economiche, di lavoro e di soddisfazione di 7.025 partecipanti iscritti a un dottorato, un sesto della popolazione totale, ed emerge che circa la metà della comunità dottorale italiana risulta ad alto rischio per quanto riguarda stress, ansia, depressione e burnout. I principali fattori condizionanti risultano essere da un lato la precarietà economica e contrattuale, dall’altro la cattiva qualità del lavoro in un contesto spesso ostile. Tali dinamiche, inoltre, colpiscono più duramente le persone che appartengono a gruppi discriminati, tra cui le dottorande, chi lavora in settori-scientifico disciplinari umanistici o chi lavora negli atenei del Sud Italia.
Viene dunque dissipata quella “coltre di romanticizzazione del mondo della ricerca […] per restituirne l’infrastruttura sociale su cui esso poggia, la materialità delle scelte di vita che le sue carriere comportano e alcuni elementi qualificanti delle quotidianità personali e professionali che lo attraversano”. E su ciò, naturalmente, incide sì la perenne maglia nera dell’Italia in Europa per investimenti in istruzione superiore e ricerca rispetto al PIL, ma anche il mancato riconoscimento dal punto di vista sociale del lavoro di ricerca, che invece necessiterebbe di una adeguata professionalizzazione dovuta in un Paese democratico e sviluppato. Un mancato riconoscimento, sottolineano gli autori della ricerca, che avviene tanto all’interno dei luoghi di ricerca, “attraverso l’offerta di posizioni parasubordinate e vilmente retribuite, della durata di un anno o inferiore, incompatibili con i tempi di raccolta dati, elaborazione, scrittura, come pure con la programmazione minima di vita familiare e affettiva”, quanto all’esterno dell’università, “dove nel settore pubblico e nel privato il possesso del titolo di dottorato ancora non dà sistematicamente accesso a posizioni e retribuzioni superiori rispetto alla laurea magistrale o al master”. Si tratta quindi di una “svalutazione professionale endemica” che ha conseguenze disastrose sulla qualità della vita dei ricercatori, soprattutto malessere psicologico.
La questione salariale. I risultati della X Indagine sono stati tristemente confermati sul piano economico e della precarietà. Mentre una laurea magistrale dà accesso a un salario netto medio tra chi lavora a tempo pieno di 1.499€ a un anno dal conseguimento del titolo e di 1.599€ dopo tre anni, l’importo della borsa di dottorato non segue nemmeno l’inflazione, portando a una perdita di potere d’acquisto vicina al 10% negli ultimi tre anni. La borsa minima fissata dal MUR e percepita dalla maggioranza di dottorandi e dottorande arriva a essere più bassa di quasi il 25% rispetto a chi ha scelto di lavorare altrove. Le donne sono il 56% del campione totale, ma solo il 47% di chi guadagna più di 1.300€ al mese; lo squilibrio nella distribuzione delle borse più alte si traduce in un divario di genere di circa 45€ mensili. Nel luglio 2022 c’è stato un aumento delle retribuzioni di circa 65€ mensili (5,7%), ma da aprile 2022 ad aprile 2023 l’inflazione è stata dell’8,2%, i generi alimentari sono aumentati del 12,1%, le bollette elettriche del 16,6% e la crisi abitativa ha fatto registrare una crescita del costo degli affitti superiore al 10% (per l’80% dei posti di dottorato, l’affitto medio supera il 30% della borsa). Il beneficio derivante dall’aumento della borsa minima è presto annullato: il numero di dottorandi e dottorande che non riescono ad arrivare a fine mese è salito dall’11% al 14%; solo il 43% di chi fa un dottorato risparmia almeno 100€ al mese (nel 2022 era il 46%), mentre il 14% deve chiedere aiuto alla famiglia (in crescita dall’11% del 2022); il 52% del campione, in aumento rispetto al 45% dell’anno scorso, non riuscirebbe a sostenere una spesa imprevista di 400€, e solo il 26% supera la soglia determinante di 800€ (soglia di povertà Eurostat), cioè quella utilizzata nelle statistiche ufficiali per determinare lo stato di povertà. Il 29% delle dottorande non risparmia nulla, rispetto al 24% dei colleghi uomini. Per la maggioranza di chi fa un dottorato, il salario orario netto è tra i 6 e gli 8 euro (al di sotto della soglia minima proposta), anche considerando l’assenza di tassazione sulla borsa di dottorato.
Le condizioni di lavoro all’interno del mondo accademico. L’ambiente accademico, prosegue la ricerca, è notoriamente caratterizzato da una spinta continua alla produttività, con ritmi di lavoro sottoposti a una continua pressione implicita a tutti i livelli per aumentare la quantità di pubblicazioni sacrificando l’equilibrio tra vita e lavoro: il 51,4% del campione lavora oltre 40 ore a settimana, il 12% supera le 50 ore. “Sebbene la maggioranza di dottorandi e dottorande dia una valutazione generalmente positiva del proprio ambiente di lavoro, soprattutto per quanto riguarda il rapporto di supervisione, vi sono aspetti obiettivi che danno conto di una condizione di sfruttamento generalizzato e demansionamento di fatto”. Inoltre, la precarietà e l’incertezza verso il futuro sono percepite dall’88% del campione e oltre la metà delle persone inizialmente intenzionate a rimanere nel mondo accademico dichiara di aver cambiato idea. L’assenza di qualsivoglia tutela contrattuale espone la categoria all’arbitrio di supervisor, collegio docenti e uffici amministrativi, sia per quanto riguarda i diritti ordinari come ferie, malattia e maternità o paternità, sia in situazioni più complesse che travalicano l’ordinario sfruttamento.
Precariato e prospettive di carriera. Le condizioni materiali del dottorato di ricerca in Italia si riflettono anche sulla percezione di insicurezza e incertezza professionale futura. Il 25,1% del campione registra un livello di insicurezza alto. Solo l’1,1% della popolazione dottorale, invece, ha riportato punteggi positivi: il dottorato in Italia non offre in alcun modo prospettive di carriera certe. Il livello di incertezza, poi, è estremamente elevato fra tutti i cicli di dottorato. Anche qui si registra un divario di genere, che però non risulta particolarmente ampio: il 26,1% delle dottorande ha punteggi negativi, contro il 24,2% dei dottorandi. Sul piano economico, il dottorato di ricerca non garantisce un presente dignitoso, né un futuro stabile. Inoltre, la natura atipica del dottorato, considerato esclusivamente come formazione ai fini fiscali e come lavoro per quanto riguarda le mansioni, non consente una pianificazione della vita personale, aspetto che peggiora per chi prosegue la carriera accademica.
Psicopatologia del dottorato di ricerca. Secondo gli autori della ricerca, le università sono tradizionalmente considerate ambienti a basso livello di stress, ma studi dedicati hanno ribaltato questa nozione portando alla luce una preoccupante diffusione delle psicopatologie legate allo stress lavorativo tra gli accademici, soprattutto tra i membri più giovani, rispetto a persone con un livello di istruzione simile nel settore privato. “Il carico di lavoro – si sottolinea – risulta essere uno dei problemi ambientali principali che portano a questa difficoltà: l’organizzazione dei gruppi di ricerca è spesso basata su aspettative eccessive sulla componente dottorale, con scarsa considerazione per l’equilibrio tra ricerca e vita privata. Inoltre, la relazione di supervisione risulta spesso problematica a causa di possibile inesperienza, incapacità di leadership, mancanza di disponibilità o inattenzione di chi svolge il ruolo di supervisor”. Per quanto riguarda l’ansia, il 27% degli intervistati riporta punteggi considerati gravi o molto gravi. Studi internazionali analoghi sul dottorato rilevano una prevalenza media del 17%. La depressione, invece, fa registrare punteggi gravi per il 36% del campione, rispetto al 24% nel dottorato all’estero e al 12% riscontrato nella popolazione generale italiana durante la fase acuta della pandemia.
In sintesi. Un lavoro estremamente competitivo e stressante, che pure lavoro non è considerato per la sua forma atipica; l’assenza totale di garanzie e benefici, sia sul piano strettamente salariale che su quello previdenziale; l’assenza di un contratto e di chiare definizioni di diritti e mansioni durante il dottorato “rende possibile un modo di produzione ottocentesco, che annulla e ribalta le conquiste sindacali dell’ultimo secolo”, chiosa lo studio. “Buona parte del lavoro di ricerca è basato sullo sfruttamento: queste dinamiche sono il principale motore di un sistema accademico al collasso sotto il peso del mancato ricambio e del sottofinanziamento cronico, oltre a innestarsi su relazioni di lavoro di tipo baronale già endemiche all’università italiana”. Un complesso che impatta sulla condizione psichica dei ricercatori e che impone di ripensare il dottorato italiano. Un problema tanto sociale quanto soprattutto politico: “Molte delle storture emerse dalla XI Indagine ADI, se adeguatamente corrette, potrebbero condurre in tempi rapidi a enormi miglioramenti, non tanto e non solo delle vite personali di dottorandi e dottorande, ma anche e soprattutto dell’intera comunità accademica e del suo ruolo sociale come vettore di prosperità economica, sviluppo sociale e progresso morale dell’intero Paese”.
Elettra Raffaela Melucci