Leggere il bel libro sul sistema europeo di relazioni industriali dei due importanti professori inglesi, Richard Hyman e Rebecca Gumbrell-McCormick, significa avere con precisione uno spaccato fedele per chiunque avesse il desiderio, o la semplice curiosità, di voler cercare di saperne di più di come funzioni davvero il sindacato a livello europeo (l’Etuc) e quali siano i temi e i problemi con i quali una piccola pattuglia di uomini e donne deve provare a misurarsi al sesto piano del palazzone di vetrocemento al numero 2 del Boulevard Roi Albert II, a Bruxelles.
Gli autori ripercorrono tutti gli avvenimenti che si sono succeduti in una parte degli anni duemila, soffermandosi in particolare per l’arco di tempo, tra il 2003 e il 2011, in cui il sindacato europeo è stato diretto da John Monks e dalla sua segreteria, della quale ho fatto parte, con qualche breve flashback sugli anni precedenti, quelli della direzione di Emilio Gabaglio, oltre a qualche rapida incursione negli anni successivi, quelli della direzione di Bernadette Tech Segol, e con qualche fugace accenno anche a quella di Luca Visentini.
Ma, come detto, il periodo sul quale vengono accesi i riflettori sono essenzialmente quelli in cui ha operato la nostra segreteria.
Anni importanti e anni difficili perché, per la prima volta dopo moltissimi anni, l’Europa e la Commissione veniva diretta da una maggioranza di destra, conservatrice e liberista, guidata dal portoghese José Barroso e da un Consiglio europeo composto da un’altrettanto ampia maggioranza di Governi nazionali tutti del medesimo schieramento politico.
Sono anche gli anni di un’Europa incerta e disorientata, perché contemporaneamente alle prese, al suo esterno, dall’esplosione della globalizzazione con l’irrompere sulla scena mondiale della Cina e, al proprio interno, da una trasformazione radicale della propria stessa composizione istituzionale, in conseguenza al processo di allargamento che arrivò a inglobare ben dieci altri Paesi, tutti con strutture economiche e sociali profondamente diverse rispetto a quelle del suo nucleo originale.
Dunque furono anni in cui l’Europa si trovò costretta a fare i conti con un duplice dumping di carattere economico, fiscale e sociale di proporzioni inimmaginabili negli anni precedenti.
La via che quella Commissione decise di seguire fu quella di una revisione verso il basso dei precedenti standard sociali ed economici, guidata dall’idea che, abbassando le garanzie e le protezioni, l’Europa avrebbe potuto così accorciare le distanze rispetto ai nuovi competitori e insieme rendere gradualmente più agevole, ai nuovi Stati Membri, la loro integrazione nel mercato unico europeo.
In più non vanno sottaciuti anche due aspetti che segnarono poi profondamente la svolta che avvenne in quegli anni.
Il primo riguardava una profonda sottovalutazione del cambiamento epocale che stava avvenendo. La globalizzazione fu vissuta, sia dal nuovo Governo europeo che dal sistema delle imprese, non come l’avvisaglia di una nuova gigantesca redistribuzione della ricchezza e del potere che si stava affacciando a livello geopolitico, ma soltanto come uno scossone, anche se forte, a cui il libero mercato avrebbe però saputo trovare le soluzioni necessarie.
Ricordo ancora oggi, come negli ambienti della Commissione, la frase che veniva continuamente ripetuta era quella di business is business e cioè che non si doveva molto drammatizzare, perché gli affari sarebbero tranquillamente andati avanti lo stesso, come sempre e come prima.
La seconda era quella di un’illusione ottica da parte delle imprese a cui non sembrava vero di poter operare in mercati immensi che finalmente si aprivano e che in più avevano costi del lavoro irrisori.
Quello scenario apparve a tanti di loro come l’apertura di un nuovo Eldorado, dove si sarebbe potuto operare utilizzando quella differenza dei costi anche per costringere in Europa ad abbassare tutti i livelli di garanzie di cui avevano goduto, fin lì, i lavoratori europei.
Ripetutamente la Commissione europea ci ricordava come non vi fosse alcun intento antisociale in tutto questo, ma come la nuova realtà obbligava a prendere atto che le condizioni del lavoro europeo erano diventate inevitabilmente una variabile di aggiustamento alla globalizzazione.
Per questo quegli anni furono segnati dai fenomeni di delocalizzazione, di un allungamento infinito della catena del valore lungo la quale, però, si spezzavano gli anelli della protezione sociale e dei diritti dei lavoratori, con i lavoratori continuamente sottoposti a quello che i colleghi di lingua francese chiamavano “le chantage de la mondialisation” ovvero il ricatto portato dalle imprese che potevano liberamente agire a livello sovranazionale, mentre i lavoratori potevano difendersi solo a livello nazionale, livello evidentemente spazzato via nella nuova realtà globale che si era determinata.
E tutti quegli anni, per questo, furono attraversati, come il testo dei due ricercatori puntualmente riprende, da una serie martellante di iniziative europee con il chiaro obiettivo di una controriforma che rivedesse al ribasso e/o smantellasse il corpo delle direttive a carattere sociale che, specialmente negli anni dell’Europa diretta da Jacques Delors, aveva fatto diventare l’Europa un modello di competitività e di protezione sociale, unico al mondo – peraltro così definito nello stesso primo articolo dei Trattati, che recita appunto come l’Europa fosse fondata su “un economia sociale di mercato”.
Invece in quegli anni quell’assioma si scompose, facendo delle politiche sociali una variabile subordinata delle politiche delle imprese e quindi sottoposta gerarchicamente ad essa.
Basti pensare, quasi emblematicamente, come nella modifica dei Trattati che furono approvati a Lisbona alla fine del 2007, la Carta dei Diritti fondamentali approvata a Nizza nel 2000 finì per diventare un semplice allegato al Trattato.
Ma l’opera di rimessa in discussione dei principi sociali non conobbe limiti.
Si pensi alla “clausola di non regressione” che era stata da sempre adottata come un principio inviolabile secondo il quale, in caso di nuova legislazione europea in materia sociale, gli Stati che godevano di leggi più avanzate non avrebbero potuto retrocedere a un livello inferiore, anche perché quei loro standard dovevano rappresentare un obiettivo verso il quale, con la gradualità necessaria, ogni Stato doveva ambire ad arrivare.
Invece la Commissione Barroso propose di considerare che proprio il processo di allargamento doveva introdurre un nuovo principio che venne definito come un socle minimum de droits, cioè la definizione di uno zoccolo minimo di diritti rispetto al quale tutti i precedenti assetti di garanzie e di diritti sociali avrebbero potuto essere rimessi in discussione.
E poi la revisione della direttiva sugli orari di lavoro, che nelle disposizioni accessorie prevedeva di poter arrivare, attraverso l’allargamento del monte ore supplementari, fino a 54 ore settimanali.
Quindi la direttiva Bolkenstein, quella della famosa metafora dell’idraulico polacco che, nella stesura originale, prevedeva come il diritto alla libera circolazione di un lavoratore tra i diversi Stati europei implicava l’automatica portabilità delle leggi e dei contratti del proprio Paese di origine, con la possibilità così di poter produrre un dumping generalizzato e al ribasso dei diritti contrattuali acquisiti in tutti i Paesi europei.
E poi la decisione di introdurre una riforma del mercato del lavoro europeo, estendendo e generalizzando in tutta Europa la legislazione danese lì denominata flexsecurity.
Modello, questo, di cui molto si è discusso perché i suoi fondamenti, almeno sulla carta, potevano sembrare anche molto suggestivi. Si tratta, com’è noto, di uno scambio tra la libertà delle imprese di poter licenziare con un successivo intervento dello Stato per prendere in carico il lavoratore licenziato, per proteggerlo sul piano contributivo, formarlo fino ad accompagnarlo verso un nuovo impiego.
Ovviamente non veniva stimato come la messa in pratica di quello scambio presupponeva non solo l’efficienza di uno Stato, ma anche una disponibilità finanziaria e organizzativa per poterlo mettere in pratica concretamente.
Infatti la sola assenza anche di una sola di queste condizioni, come poi si è visto nella pratica, produceva il risultato che lo scambio effettivo avveniva tra la libertà di licenziamento, da una parte, e invece solo una vaga promessa di reimpiego, dall’altra.
E su questo processo di destrutturazione sociale si potrebbe continuare ancora molto a lungo.
Ma non è un lungo elenco a rappresentare il punto davvero importante, perché ciascuno di essi erano in fondo solo pezzi di un mosaico che illustrava il possente attacco iperliberista che si stava dispiegando, di fronte al quale, i membri della segreteria dell’Etuc sembravano come il famoso bambino di Amsterdam che si affannava ad infilare le dita nelle fessure della diga con l’illusione di evitare così che l’acqua tracimasse distruggendo ogni cosa.
Ma le dita non bastavano mai, perché noi eravamo solo una misera pattuglia di sette segretari coadiuvati da una dozzina di volenterosi funzionari.
Un organico, cioè, grosso modo similare a quella di una piccola Camera del Lavoro italiana, ma che nonostante tutto cercava di reggere a quell’offensiva antisociale con un impegno certo generoso e competente, ma estenuante e sicuramente impari, proprio come viene testimoniato nel libro, pagina dopo pagina.
Dunque è quell’impari che rappresenta il punto fondamentale su cui bisognerebbe cercare di andare più a fondo.
Anche perché quell’impari non è poi rimasto temporalmente circoscritto alle temperie particolari di un determinato periodo come quello così ostico e sfortunato, bensì è un impari con il quale anche tutti i successivi gruppi dirigenti del sindacato europeo, almeno fino ad oggi, hanno dovuto fare i conti.
Questo perché quell’impari attiene, in realtà, alle contraddizioni strutturali di un sindacato sovranazionale e quindi ai limiti e ai vincoli entro cui deve e può muoversi.
Ovviamente le ragioni e i nodi che andrebbero sciolti sono molteplici e a essi alludono, nella parte conclusiva del libro, i due autori, ma forse in questa circostanza vale la pena provare ad enumerare almeno quelli più stridenti ed evidenti.
Il primo: in inglese Etuc o nella versione francese Ces, sono l’acronimo di European Trade Unions Confederation oppure di Confédération Européen des Synidicats, cioè entrambe descrivono come la funzione qualificante sia nel termine confederazione.
Confederazione, com’è noto, è sinonimo di unione politica, ovvero l’azione di un’Organizzazione che persegue scopi comuni e nel caso specifico quelli per la difesa degli interessi generali dei lavoratori europei e della loro rappresentanza.
Una confederazione, quindi, è una libera Organizzazione che funziona sulla base di regole statutarie e di una prassi di azione politica decisa democraticamente dagli organismi di direzione che ne fissano, di volta in volta, le priorità, le scelte conseguenti e quindi le azioni necessarie che poi l’intera struttura confederale è chiamata a compiere e ad osservare.
Ad esempio non potrebbe mai esistere il caso che un sindacato, poniamo la Cgil, definisca nei suoi organi una scelta che poi non impegni tutta la sua struttura, territoriale e di categoria, a realizzarla.
Così come non potrebbe esistere in natura che, continuando l’esempio, la Cgil decida di aprire una vertenza e magari organizzi un’azione di mobilitazione o di sciopero a sostegno e che una sua struttura territoriale o di categoria possa decidere di dire: “Ok, ma a me quella vertenza non interessa e quindi non la sostengo”.
Se ciò per assurdo avvenisse, la Cgil nazionale di Corso d’Italia 25 non sarebbe una confederazione sindacale, ma solo una sovrastruttura autoreferenziale.
Ma quell’assurdo è invece esattamente ciò che succede a Bruxelles.
L’Etuc non è un sindacato confederale inteso cioè come una struttura che funziona come un sistema organico e integrato che sovrintende alla definizione delle linee politiche e alle scelte, che poi impegnano coerentemente l’azione di tutte le sue strutture aderenti a livello nazionale e poi territoriali, sia orizzontali che verticali.
Se davvero fosse così, allora quell’impari sarebbe stato sconfitto in partenza e la difesa dell’Europa sociale e dei lavoratori avrebbe avuto ben altra forza e possibilità di successo.
Ma, ad oggi, tutto ciò corrisponde a puro velleitarismo.
Devo aggiungere, per quel che conta e solo a titolo esemplificativo, che sul piano personale non ho mai smesso, per tutti i lunghi anni del mio mandato, di battermi per cercare almeno di aprire qualche spiraglio verso quella prospettiva di intendere il sindacato europeo non come una sovrastruttura o una protesi, ma un sindacato vero che opera e agisce come tale.
D’altronde nelle competenze che mi erano state assegnate, della politica contrattuale ed economica europea, era del tutto evidente che non c’era altra strada che quella.
A cosa serviva, ad esempio, dirigere la contrattazione europea se poi i sindacati nazionali delle loro scelte si limitavano solo ad un’informazione ex post e mai ex ante, senza cioè mai preoccuparsi se poi quelle loro scelte avrebbero potuto influire in termini positivi o negativi per i sindacati e i lavoratori di altri Paesi?
Su questo punto va osservato come invece i due autori si siano in fondo limitati a raccontare la cronaca fisiologica degli avvenimenti, senza mai cercare di cogliere e di provare a descrivere la dura lotta quotidiana che era in realtà una dura lotta di potere per provare a far smettere che quel sindacato europeo fosse considerato davvero solo una sovrastruttura.
Ma la realtà è, come noto, ben più dura delle parole.
Per questo riuscire a convincere di passare da un’inutile informazione a posteriori ad un’altra più anticipata, è risultato un esercizio impossibile anche davanti alle conseguenze evidenti che ciò comportava.
Si pensi solo ai sindacati dei Paesi della zona dell’euro, nella quale la politica monetaria della Bce ha come uno degli elementi di analisi fondamentali proprio quello dell’andamento della dinamica dei salari al fine di decidere la politica dei tassi.
Quindi provare a spostare i tempi delle scelte contrattuali a livello nazionale non aveva solo certo l’obiettivo di migliorare un processo di coordinamento interno, bensì per poter valutare in tempo utile le conseguenze macroeconomiche generali, ivi compresi gli effetti sia sulla domanda che sulla politica del credito per investimenti.
Si ricorda ancora che, per evitare qualsiasi fraintendimento, ovvero di una Etuc che (chissà perché?) intendesse spingere verso una politica di moderazione salariale, si decise di organizzare a Lubiana, nell’aprile del 2008, una grande manifestazione europea sui salari e sulla necessità di un loro incremento e che, subito dopo, nell’ottobre dello stesso anno, venne organizzata una conferenza sui salari con la presenza di Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, che per la prima volta nella storia dell’Etuc varcò la soglia della nostra sede di Bruxelles confrontandosi apertamente con le nostre tesi che, peraltro, ammise che erano difficili da confutare.
Dispiace che entrambi questi avvenimenti non trovino nel libro dei due autori inglesi, il minimo accenno.
Ma perché avveniva tutto questo? Perché questa ritrosia dei sindacati nazionali a voler rendere più effettivo e concreto il lavoro del proprio sindacato europeo?
Ovviamente le cause sono diverse e non certo banali.
Tuttavia qualche ipotesi, sia pure molto grossolana, vale forse la pena di azzardare, a partire dal profondo diverso approccio verso il sindacato europeo, tra i sindacati dell’Europa continentale e quelli della fascia mediterranea.
I sindacati del Nord, che non a caso hanno anche costituito una struttura intersindacale transnazionale a livello scandinavo, si sono sempre mossi avendo verso il sindacato europeo e le sue politiche un atteggiamento certo di grande attenzione, alla condizione però che quelle politiche non interferissero mai con la totale e inviolabile loro piena autonomia intesa davvero come un bene indisponibile.
Parliamo di sindacati con una storia straordinaria, dotati di una generosità senza limiti e sempre pronti ad atti di solidarietà e di sostegno per ogni realtà sociale e sindacale in difficoltà, ma nel contempo sempre pronti ad alzare un muro invalicabile ogni qualvolta venisse anche solo percepito un problema nel rapporto tra le scelte europee e la loro realtà.
Molto diverso nei comportamenti, ma non nella sostanza, era l’atteggiamento dei sindacati inglesi che si confermarono anche negli anni in cui era uno di loro, John Monks, a dirigere l’Etuc.
La storia di quel Paese verso l’Europa e le sue Direttive, al di là dei Governi che si sono succeduti nel tempo, è stata sempre improntata sul principio dell’opting out, cioè sulla decisione di derogare e di rifiutare di recepire tutta la legislazione comunitaria sul piano sociale. In altre parole, una sorta di Brexit sociale ante litteram.
In questo senso anche il Tuc, il sindacato inglese, ha sempre partecipato all’elaborazione e alle scelte del sindacato europeo, ma come se esse riguardassero altri e non loro stessi.
Ben diverso invece è stato sempre l’approccio della Dgb, il sindacato tedesco.
Credo si possa affermare, senza alcun timore di smentita, che il Dgb sia il sindacato più europeizzato e più presente a Bruxelles, a dimostrazione dell’importanza e del valore che viene assegnato verso tutto ciò che avviene a quel livello.
Infatti non c’è struttura, luogo, dipartimento, funzione in cui la Dgb non abbia investito posizionando strategicamente quadri, dirigenti e funzionari, tutti peraltro dotati di ottime competenze e di elevate professionalità.
In altre parole, la Dgb ha la convinzione di essere la struttura più forte e più organizzata in Europa (così come il loro Stato lo è sul piano economico) e quindi di essere chiamato ad esercitare una funzione di guida dell’intero sindacalismo europeo.
Ma con ciò, però, realizzando una sorta di oggettiva sovrapposizione con le funzioni e l’attività dell’Etuc.
E sarebbe però sbagliato immaginare che questo atteggiamento possa nascondere una logica proprietaria verso il sindacato europeo, perché invece esso testimonia solo la convinzione che, per rendere quel sindacato davvero forte, non bisognasse far altro che seguisse tutto ciò che aveva sempre fatto forte il sindacato tedesco.
Allora si comprende meglio, quindi, come ogni tentativo di sottoporre la loro azione a una verifica ex ante risultasse del tutto incomprensibile.
Così come, in generale, per qualsiasi decisione presa dall’Etuc che fuoriuscisse dal quadro delle loro convinzioni e delle loro scelte politiche. Infatti nei pochi casi in cui ciò si era manifestato, immediatamente è sempre scattata la scelta di una opposizione fermissima.
Un’opposizione fortissima anche suffragata e resa possibile dalla semplice realtà che il sindacato tedesco, insieme a quello scandinavo, rappresentano la maggioranza congressuale del sindacato europeo e con ciò potendo esercitare sempre una funzione di controllo e nel caso di blocco di ogni decisione che non fosse condivisa.
In questo quadro appare allora evidente come la direzione del sindacato europeo si trovi stretta dentro una morsa di tipo conservatrice, che la vincola a non poter intraprendere posizioni più coraggiose ed evolutive.
In sostanza, il sindacato europeo non ha quei poteri che sul piano istituzionale ha ad esempio la Commissione europea, ma invece assomiglia molto di più a quelli del Consiglio europeo, cioè di un ruolo europeo di un intersindacale su base nazionalistica e per questo, con gli stessi limiti e logiche, ivi compresi la logica dei veti oppure del doversi sottoporre ad estenuanti patteggiamenti.
Anche tutto questo, a volte, rende frustrante provare a dirigere da Bruxelles l’azione sindacale.
Sul lato mediterraneo invece, il sindacato italiano, quello iberico e in parte quello francese, sono portatori di un’altra linea.
Una linea sinceramente e sicuramente più aperta e più europeista.
Sono anche quei sindacati dove si è davvero pronti a devolvere a livello europeo anche proprie competenze, pure in materia contrattuale e salariale.
Il solo problema è che queste attitudini, indubbiamente positive, poi finiscono per essere più declamatorie che effettive.
E lo sono perché il sindacato mediterraneo, anche perché plurale, a differenza di quello continentale, finisce per essere più assorbito nelle vicende di carattere nazionale che di quelle europee, che nei fatti viene alla fine vissuto con l’idea di un luogo aggiuntivo e non decisivo.
Anche per questo l’investimento in quadri e funzionari è più raro e casuale e comunque con una proporzione infinitesimale più ridotta nelle presenze rispetto a quelle del sindacato continentale.
Tuttavia ciò che alla fine conta davvero è che un eccesso di propensione a privilegiare l’ambito nazionale al posto di quello europeo, proprio nel tempo che ancora oggi attraversiamo, segnati cioè dai processi ieri di globalizzazione e oggi di multipolarismo, risulta davvero essere un no sense.
Una posizione cioè del tutto irragionevole e antistorica, anche al fine della difesa degli stessi lavoratori che s’intendono rappresentare.
Quando il mondo si apre e le imprese si muovono senza tenere in alcun conto limitazioni e confini, operare come se la migliore difesa sia tutta chiusa dentro i propri angusti spazi nazionali rappresenta una vera e propria illusione ottica.
E va aggiunto che ogni ritardo rispetto a questa semplice consapevolezza, poi finisce per generare conseguenze e danni a cui poi si fa molta fatica a porre rimedio.
Infatti, tornando al testo del libro, un altro tema su cui i due autori non hanno avuto il modo di voler analizzare è proprio quello dello iato fra due prospettive sindacali che sono fra loro totalmente differenti.
Prospettive proprio sulle quali avvenne, negli anni descritti, nella segreteria dell’Etuc, nelle categorie europee e tra i sindacati a livello nazionale, a partire da quello tedesco, un vero e proprio scontro politico molto duro.
Ci si riferisce al tema della revisione (recasting) della direttiva sui Comitati aziendali europei (Cae).
In quel caso, nessuno metteva in dubbio che la possibilità di una revisione dei diritti di partecipazione fosse una scelta inutile o sbagliata.
Il problema era un altro: “Ok, ma per farne cosa?”
Perché proprio su questo punto vennero limpidamente alla luce due visioni strategiche molto diverse fra loro.
Da una parte c’era la volontà circoscritta al solo lavoro di merito per aggiornare quella direttiva e, dall’altra, all’opposto, che invece proprio l’allungamento in atto delle catene del valore e i processi di delocalizzazione offrivano al sindacato l’opportunità unica di avere già sul campo ben quindicimila delegati dei Cae che potevano rappresentare un’opportunità straordinaria per provare a farne una prima cellula di europeizzazione dei poteri negoziali, rendendoli non più un corpo separato, ma integrato in un disegno di iniziativa contrattuale.
Una parte della segreteria dell’Etuc e anche del sindacato europeo dei metalmeccanici (la Fem) ne era del tutto convinta, mentre per un’altra parte e per tante strutture sindacali europee e nazionali si trattava solo di una prospettiva fumosa e astratta.
E lo stesso avvenne rispetto agli oltre sessanta Consigli interregionali transfrontalieri che punteggiano i confini di tutti gli Stati Membri, che oltre al prezioso lavoro di difesa delle condizioni previdenziali o contributive dei singoli lavoratori, avrebbero potuto invece sindacalizzarsi per contrattare i fenomeni di dumping contrattuale tra una frontiera e un’altra, occupandosi anche del governo del mercato del lavoro e delle politiche salariali lungo i bordi di quei confini.
Invece alla fine prevalse la tesi dello status quo e quindi quella del recasting, proprio mentre beffardamente nello stesso momento addirittura la Commissione aveva avvertito l’esigenza di lanciare un progetto sulla contrattazione transnazionale che però, dopo qualche tempo, davanti alla furibonda opposizione della Confindustria europea (Business Europe) e al sostanziale disinteresse sindacale, finì per essere riposta nel cassetto.
In sintesi, allora, si potrebbe anche concludere che al sindacato europeo la missione che viene di fatto conferita è solo quella di una funzione puramente lobbistica e non invece di carattere rivendicativo e contrattuale.
E qui ancora oggi siamo, nell’anno di grazia 2024.
Poi ci sono alcuni altri elementi di puro corollario ma che comunque contribuiscono, in un modo o nell’altro, a forgiare il ruolo stesso e la qualità del sindacato europeo.
Ovviamente gli spunti sarebbero tanti ma, per brevità, è forse utile soffermarsi solo su due: la selezione dei gruppi dirigenti e il nodo del finanziamento
Il primo riguarda cioè l’individuazione delle caratteristiche fondamentali per assolvere al ruolo di direzione di un sindacato a livello europeo.
Se, da questo punto di vista, si ripercorre la serie storica delle tante segreteria dell’Etuc, dalla nascita fino ad oggi, balza agli occhi come la stragrande maggioranza dei suoi componenti abbia avuto il profilo funzionariale piuttosto che di quadri con sicura esperienza di direzione sindacale.
Sicuramente per un lavoro così particolare alcune doti, come ad esempio quelle linguistiche, possono aver contribuito a determinare le scelte delle candidature.
Ma sarebbe anche troppo banale assumere questa come una discriminante davvero decisiva.
Anche perché le ragioni più di fondo non risiedono certo su quella caratteristica, pure importante.
La prima di essa infatti riguarda una decisione un po’ bizzarra che fu presa dalla segreteria diretta da Emilio Gabaglio, quando circoscrisse ad un massimo di due mandati la funzione massima temporale dei segretari.
Una scelta questa del tutto ragionevole a livello nazionale, ma forse non del tutto adatta per un sindacato europeo, dove per assolvere a quel ruolo significa anche il doversi trasferire all’estero, vivere a Bruxelles e lasciare, per un lungo tratto di tempo, il proprio sindacato nazionale e la propria collocazione in esso.
Trascorsi poi gli otto anni, ritrovare nel proprio sindacato la funzione abbandonata precedentemente risulta essere una condizione quasi impossibile.
Quindi perché un quadro che sta svolgendo un ruolo di direzione nel proprio Paese dovrebbe decidersi di lasciare tutto, andare a Bruxelles senza avere alcuna ragionevole certezza per il dopo?
E infatti non c’è traccia di sindacalisti che, nel pieno della loro attività, questa scelta l’abbiano poi compiuta.
Allora resta l’altra possibilità, quella cioè di sindacalisti arrivati invece al culmine della loro esperienza sindacale.
Della segreteria di cui si occupa il libro, gli unici ad avere queste caratteristiche eravamo in due, mentre tutti gli altri cinque colleghi non avevano invece mai avuta alcuna esperienza diretta di direzione sindacale.
Ma sia John Monks che il sottoscritto hanno poi dovuto pagare lo scotto di altri problemi.
Infatti entrambi eravamo stati sindacalisti che avevamo speso tutta la propria vita nelle vicende sindacali nazionali e per questo con minori conoscenze e abilità linguistiche.
Monks, nonostante tutti gli sforzi, non è mai riuscito infatti ad esprimersi in maniera intellegibile in francese, mentre personalmente ho preferito ripiegare sul francese come lingua ufficiale, rendendomi conto che la mia fluidità nell’inglese, nonostante le infinite full immersion, non mi consentivano la piena padronanza, conseguenza tipica di quando si ha un’età più matura.
Ma sono proprio queste condizioni poi che concorrono alla definizione di team di dirigenti europei, con persone che sicuramente conoscono bene le lingue ma che non hanno però alcuna esperienza di come si dirige un sindacato.
Infatti, la maggior parte dei quadri sindacali che affollano le riunioni europee o che occupano un posto di direzione sono in larga parte proprio composti da funzionari dei dipartimenti internazionali dei vari sindacati.
È del tutto evidente come anche da questo versante risulti poi arduo, per segreterie largamente così formate, poter avere quell’autorevolezza necessaria nei confronti dei dirigenti dei sindacati nazionali.
Cosa che invece non avverrebbe se fossero proprio i segretari generali dei sindacati nazionali, cui fornire tutto il supporto tecnico necessario, a comporre la segreteria del sindacato europeo, devolvendo quindi sé stessi – e non solo – alcune competenze a livello europeo, con ciò testimoniando il proprio convincimento di dove siano oggi i veri centri del potere dove poter davvero difendere le condizioni dei lavoratori.
Poi, da ultimo, c’è la questione del finanziamento. Questione questa delicata, ma che sarebbe sbagliato far finta di non vedere.
Il sindacato europeo è infatti soggetto ad un doppio handicap che si riverbera poi, anche se indirettamente, sulla propria attività.
Le due fonti di finanziamento sono, da una parte, quelle erogate dalla Commissione, attraverso i progetti presentati dall’Etuc o dall’Etui (il Centro di ricerca) e, l’altro, dato dal versamento annuale delle quote dei sindacati affiliati.
Non esiste, cioè, una quota di riparto verso il sindacato europeo di versamenti diretti e automatici dei lavoratori.
Nel primo caso si tratta di un supporto istituzionale necessario da parte della Commissione, perché solo le spese d’interpretariato e di stampa multilingue della documentazione rappresenterebbero un costo insostenibile se fosse invece caricato sulle strutture affiliate.
Va anche detto che mai la Commissione, quale che sia stata la sua composizione, ha esercitato la benché minima interferenza nella libera attività sindacale. Tuttavia resta il dato che la sopravvivenza finanziaria stessa del sindacato, dipende da quei finanziamenti e non da un’autonomia economica propria.
Ma anche il secondo canale, quello delle quote pagate dai sindacati nazionali, non è priva di contraddizioni, perché rende il sindacato europeo dipendente di fatto da quelle erogazioni.
E in questo caso è pure avvenuto, proprio negli anni ripercorsi dal libro, che quando si sono manifestate divergenze di merito tra il livello europeo e quello nazionale, è anche successo in un paio di casi, prima con la Dgb e poi successivamente con la Cgil, che entrambi adombrassero la decisione di bloccare o congelare il versamento delle proprie quote, mettendo di fatto con le spalle al muro il sindacato europeo.
Ecco, quelle fatte non sono altro che alcune semplici annotazioni e considerazioni a margine di un testo prezioso come quello dei due autorevoli autori che lo hanno redatto.
Un testo non solo informativo, ma anche preveggente e proiettato nel futuro proprio perché, enucleando e ripercorrendo una serie di eventi e di nodi problematici di quegli anni, di fatto ogni lettore finisce per rendersi conto di come quegli stessi nodi siano esattamente ancora quelli di oggi e forse di domani.
Ma anche, quindi, di quanto sia ancora arduo e lungo il cammino da dover compiere per provare a dare un ruolo e una nuova linfa vitale per un’azione europea di un sindacato non più sovrastruttura (“di plastica”, come si scherzava amaramente fra di noi nei corridoi del palazzo), ma invece finalmente un sindacato vero e all’altezza, con gli uomini, i poteri e tutta la forza necessaria per poterlo fare.
Walter Cerfeda
Nota: L’articolo è un’anticipazione dei Quaderni di rassegna sindacale, pubblicazione della Cgil diretta da Mimmo Carrieri.