Un’Europa più unita e integrata che mai, capace di guidare la transizione ecologica globale, riaffermando il proprio ruolo nel mondo, promette Ursula von der Leyen che, alla testa della tradizionale coalizione di popolari, socialisti e liberali, si prepara a guidare per cinque anni l’Unione europea. Solo che questo era già il 2019 e il forte senso di déjà vu dell’estate 2024, che ne sembra la replica, non maschera affatto la realtà dei rivolgimenti di questi anni. Tutto sembra uguale, ma tutto è cambiato. Il mondo non è più lo stesso, l’Europa non è più la stessa, anche gli equilibri all’interno dell’Unione non sono più gli stessi. E tutto è diventato più difficile.
Per un verso, l’Europa è stata capace di superare brillantemente prove durissime: lo scoglio della Brexit, il trauma della pandemia, il boom dell’inflazione, il vortice ucraino. Lo ha fatto, dando una potente accelerata a quelle spinte all’unità, all’integrazione, alla solidarietà, che sono nel dna, almeno culturale, della Ue e che sono riassunti efficacemente nel piano di aiuti del NextgenEu. Ma esce da questi anni carica di dubbi e paure, accerchiata, isolata, fragile e divisa. Il modello che l’Europa ha interpretato in questi decenni non morde più la realtà. Da una parte, l’accento sui diritti e sulla democrazia è insidiato dal dramma dei migranti e dalla costante erosione dei politici alla Orbàn.Dall’altra, la fede nella globalizzazione e nei suoi strumenti (il Wto, l’Onu, il Fmi), nel liberismo commerciale e nei meccanismi di mercato è insidiata dalle svolte che il mondo sta attraversando. Nel 2019, Trump appariva al tramonto e la Cina sembrava un partner. Oggi, l’America è alle soglie di una nuova ondata doganale e la Cina si rivela sempre più come un rivale potente e pericoloso. L’Europa è spinta ad ua vera conversione a U: barriere protezionistiche verso l’esterno e una politica industriale fortemente interventista, con inevitabile strascico di rivalità e divisioni fra i paesi, all’inseguimento degli investimenti più appetibili.
Ma anche l’Europa è cambiata. Ci sono ancora popolari, socialisti e liberali al timone, rafforzati dall’appoggio esterno dei Verdi. Tuttavia, anche se i risultati delle elezioni di giugno sono stati digeriti e metabolizzati dai partiti tradizionali, la pressione dei populisti di destra ha costretto a spostare i paletti. La nuova Commissione von der Leyen tenterà di rispettare gli obiettivi di decarbonizzazione e transizione ecologica già fissati (come chiedevano i Verdi), ma non varerà nuove legge e nuovi regolamenti: al massimo, la stretta ecologica (come hanno preteso i popolari) si attesta qui. Contemporaneamente, nonostante le promesse e i vantaggi magnificati nei rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi sul futuro dell’Unione, l’integrazione non farà passi avanti: da più di una capitale viene l’avvertimento che i soldi destinati dai singoli paesi all’Unione sono destinati a diminuire, non aumentare. Lo hanno detto Olanda, Austria e Slovacchia, piacerebbe a Salvini, sarebbe piaciuto alla Le Pen.
E’ a questa interazione fra governi nazionali e esecutivo comunitario che bisognerà guardare per capire la direzione dell’Europa. Sono lì anche le ultime cartucce di cui dispone Giorgia Meloni. La frantumazione del voto di destra fra vari gruppi ferocemente concorrenti a Strasburgo (a dimostrazione che anche a destra impera la sindrome Tafazzi) ha impedito alla premier italiana di dimostrarsi indispensabile nei nuovi equilibri europei. Ma, anche gratis, una presenza di Roma al tavolo in cui prendono forma le decisioni avrebbe giovato all’Italia. Meloni ha preferito invece puntare tutto sullo scenario di partito, votando contro la von der Leyen per impedire a Salvini facile propaganda sulla sua resa.
Forse la premier italiana spera di recuperare posizioni e influenza nell’altro braccio del potere Ue, il Consiglio europeo che riunisce i governi nazionali e, di fatto, rappresenta il passaggio indispensabile per ogni decisione comunitaria. Ma è una scommessa molto arrischiata. Il fallimento della Le Pen in Francia impedisce alla destra europea di compensare il mancato sfondamento nelle elezioni europee con una minoranza di blocco a livello di governi: senza la Francia non si raggiunge la quota di sette governi con il 35 per cento della popolazione Ue, statutariamente necessaria per fermare le decisioni. La speranza, tuttavia, di riuscire ugualmente a coordinare l’azione dei governi di simile ispirazione politica è anche più azzardata.
Meloni ha ragione nel ricordare che l’Italia è un partner di prima fascia all’interno della Ue e che deve pesare per quella che è la sua importanza. Ma l’Italia è anche, da sempre, un partner problematico e, inevitabilmente, il populismo degli altri paesi si nutre di diffidenza proprio verso l’Italia. Inutile cercare sponde da quella parte, in caso di necessità. Inoltre, articolare posizioni comuni, su quel versante degli schieramenti politici si scontra con una contraddizione inaggirabile, come si è visto proprio nel voto di riconferma della von der Leyen, dove ognuno ha scelto, a destra, come gli pareva perché a fare premio erano, comunque, gli interessi nazionali. Facile che questo ingorgo si ripresenti anche a livello di Consiglio europeo, se i diversi governi si trovassero a decidere, privilegiando il solo interesse nazionale. Il problema dell’Europa delle Nazioni è che si tratta di una ricetta per la paralisi. Sarà l’incubo dei prossimi anni di Ursula.
Maurizio Ricci