Nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946, la salma di Benito Mussolini viene trafugata dal cimitero milanese del Musocco. Domenico Leccisi, autore con altri due camerati di quel gesto, narra: “Dopo circa un’ora e mezza di lavoro, Rino e Ferruccio si avvidero di essere giunti, con la punta dei loro attrezzi, a pochi centimetri da un corpo solido. Lavorarono di sole pale, finché il coperchio nerastro di una cassa spuntò nel fondo della fossa. Si volsero verso di me, che non li perdevo di vista un solo istante, facendomi un cenno. Li raggiunsi di corsa. Tutti e tre ci scambiammo uno sguardo. Il cielo schiarito annunciava l’alba. Mi chinai sull’apertura e, facendo leva con la punta di un piccone, tentai di scoperchiare la bara, ma il legno del coperchio si ruppe restando semi alzato da un lato. Abbandonai il piccone e mi calai nella fossa”.
Continua il futuro deputato missino: “Accesi la torcia dirigendo il fascio luminoso nel fondo della bara: apparve subito, riconoscibilissima, la testa di Mussolini […] Mussolini giaceva completamente nudo su uno strato di trucioli di legno anneriti. I calzoni militari di tessuto diagonale, che indossava all’atto dell’arresto e che si vedono strappati e lordi di sangue nelle fotografie che lo ritraggono a piazzale Loreto, buttati sul ventre e sopra le gambe, gli facevano da sudario”.
Aggiunge Ferruccio (Mauro Rana), arrestato pochi giorni dopo: “Trattenendo il respiro, senza guanti né maschere, né altri accorgimenti, afferrammo con le mani quelle membra disfatte e le mettemmo nel tendone. Il corpo era talmente informe che entrò benissimo nel telo, che ripiegammo a guisa di un grosso fagotto. Trascinammo la salma sulla ghiaia, lungo il viale alberato, fino al limitare del campo. Facemmo così per il gran puzzo che ci impediva di prendere il carico tra le braccia. Giunti al muro, bisognò far compiere al cadavere un salto di più di 2 metri, fino alla strada. Legammo il grosso fagotto con una corda e lo calammo rapidamente giù. Fu a questo punto che il tendone si aprì un po’, il corpo strisciò lungo le asperità del muro, una falange cadde a terra”.
Fuggono in macchina (“la presenza del cadavere rendeva l’aria irrespirabile”) fino a Madesimo, nella villa dello stesso Rana, poi scelgono di affidare la salma ad un convento di frati. Alla vigilia delle elezioni del 2 giugno, minacciando armi alla mano gli operatori, riescono a far inserire per tre volte nello schermo luminoso di piazza del Duomo, davanti alla folla che ascoltava i comizi, la frase: “Viva il Duce, il fascismo non è morto”.
Grazie alle indagini della cosiddetta “volante rossa” la polizia riesce catturarli. Il corpo di Mussolini viene trasportato in una cappella di Cerro Maggiore fino al 29 agosto 1957 quando l’allora presidente del consiglio, il democristiano Adone Zoli, decide di riconsegnare le spoglie alla famiglia. “Dunque è proprio questa la bara che ti hanno dato, Benito?”, affermò donna Rachele accogliendo la cassa da imballaggio con rozzi cerchi di ferro e maniglie arrugginite. Da allora, quella cassa è racchiusa nel sarcofago della tomba di famiglia, a Predappio.
Nello stesso anno del trafugamento, il 26 dicembre 1946, nasce a Roma, in un’abitazione di via Barberini, il Movimento sociale italiano. I fondatori (tra i quali Pino Romualdi, Arturo Michelini e Giorgio Almirante) lanciano un “appello agli italiani” che termina così: “A fondamento delle nuove fortune della Patria, deve porsi la restaurazione di una comunione ideale tra i Morti e i vivi”. La funerea mitologia ha la sua apoteosi con la scelta del simbolo, la fiamma che scaturisce dal sepolcro del dittatore. E proprio a Predappio viene aperta una delle prime sezioni del nuovo partito.
“Duce, Duce”, invocano, 78 anni dopo, i giovani fratelli d’Italia ripresi dall’inchiesta di Fanpage. Il macabro filo nero non è mai stato reciso. E la dolorosa preoccupazione di Liliana Segre, che teme di essere perseguitata di nuovo, suscita sgomento.
Cara Meloni, la spenga quella fiamma. Riconsegni per sempre il corpo di Mussolini all’oblio della terra.
Marco Cianca