Secondo la definizione dettata dall’enciclopedia Treccani, tabù è il termine che indica «ogni atto proibito, oggetto intoccabile, pensiero non ammissibile alla coscienza». In questo lungo corso di wokismo e cancel culture – appena iniziato ma che sembra durare un secolo – questa declinazione è sovrestesa a molteplici ambiti e concetti del nostro ragionare o semplicemente del nostro colloquiare. Di certo è cosa buona e giusta tenersi alla larga da alcune accezioni – che poi, bastante una licenza di terza media, si possono parafrasare e passarla liscia -, ma in maniera nemmeno troppo controintuitiva questa fobia per alcune parole e/o immagini sterilizza il nostro ragionamento da concetti che invece sono pressoché fondamentali per la comprensione del corso delle cose e che nemmeno la parafrasi più acuta riuscirebbe a restituire. Quel corso delle cose che poi è lo specchio entro il quale si riflette la nostra immagine sempre più distorta. Ma non si tratta solo di brutte parole foriere di un passato nefasto – scrostate con il cancellino abrasivo del politically correct – o delle statue dei confederati – quando un regime crolla, le statue cadono -: questo accade anche con la filosofia, la politica, l’economia, la narrativa, la poesia. Oggi, per esempio, non è «ammissibile alla coscienza» parlare di “capitalismo”, di “lotta di classe”, di “sfruttamento dei lavoratori”, di “plusvalore”, di “lavoro salariato”: non sta bene nel nuovo secolo – ma nemmeno troppo alla fine di quello precedente – andare a saccheggiare il bagagliaio del passato per leggere il presente, per di più un kit concettuale che si associa a una rivoluzione impropriamente associata a sangue e violenza (le derive del revisionismo storico). Viviamo nel migliore dei mondi possibili, ci hanno detto, in cui alcune evidenti storture sono solo necessari errori di policy che tutti insieme (o meglio, la stragrande maggioranza) dobbiamo sopportare per consolidare il fantomatico bene comune. E se proprio dobbiamo criticare, parlarne, dibatterne, dobbiamo inventarci nuovi modi e nuovi termini che si adattino perfettamente a questo nuovo corso che, convinciamocene, sta andando alla grande. Evidentemente, però, le cose non stanno proprio così, perché tutto quello che c’è da dire è stato già detto, già pensato. Diciamo corsi e ricorsi, diciamo come ci pare, ma il meccanismo è questo. Il funzionamento del presente è copia carbone dei meccanismi del passato. E quindi non c’è nulla da fondare ex novo, c’è solo da rifondare, rinvasare in un nuovo terreno: parlare di “capitalismo”, di “lotta di classe”, di “sfruttamento dei lavoratori”, di “plusvalore”, di “lavoro salariato” è strettamente attuale e massimamente necessario se si vuole anche solo approcciare lo spirito del tempo che – udite udite – nuovo non è.
Con il suo nuovo libro L’economia è politica. Tutto quello che non vediamo dell’economia e che nessuno racconta (Fuori Scena, 186 pagine, 16,50 euro) Clara E. Mattei – giovane economista italiana che vive e lavora a New York, dove insegna alla prestigiosa New School for Social Research – recupera e rilancia con forza la lezione dei grandi classici, da Smith a Ricardo a Marx, attaccando in modo dirompente quella naturalizzazione dell’economia che ci porta a considerare quest’ultima come una scienza esatta, rigorosa, pura, definita da modelli matematici rispetto ai quali non possiamo fare nulla, solo adattarci, proprio in nome della favola che il nostro sistema economico rappresenti il migliore dei mondi possibili, il modo più eccezionale di produrre ricchezza e benessere. Pagine “esplicitamente militanti”, quelle di Mattei, che è chiara fin dall’inizio: «Ciò non significa rinunciare al rigore scientifico dell’indagine. Al contrario, vuol dire rivendicare l’inestricabile posizionamento sociale dell’intellettuale, che non può che essere situato nel mondo e, come ricordava Gramsci, organico alla lotta di classe. Prendo dunque consapevolmente una posizione anticapitalista, per andare al di là della mera critica al neoliberismo e per proporre un’analisi che auspico possa scuotere i lettori a partecipare a una vera trasformazione sociale».
Muovendo dalla decostruzione dell’economia ortodossa e rivitalizzando la tradizione di economica politica critica «che è stata condannata alla damnatio memoriae per la sia portata potenzialmente sovversiva», il libro incarna proprio il tentativo di fornire una nuova prospettiva emancipatrice, basata sulla necessità di esorcizzare la dannosa depoliticizzazione dell’economia operata dai tecnocrati con la connivenza della classe dirigente: «Non esistono problemi economici che non siano inevitabilmente anche problemi politici […] la nostra economia non è un oggetto esterno a noi […] l’economia siamo noi come persone in carne e ossa. Il “capitale” come “merce”, come denaro da investire, come ricchezza (espressa in Pil) esiste grazie a specifiche relazioni sociali e, in particolare, grazie al fatto che la maggioranza della popolazione globale non ha alternativa se non quella di vendere la propria capacità di lavorare per un basso salario ed essere retribuita meno rispetto al valora che produce. È questo “l’ordine del capitale”, di cui non parliamo mai ma che sta alla base della nostra società».
Le decisioni delle istituzioni economiche non sono mai “neutrali” o al servizio del “bene comune”, così come la forma attuale della nostra società, ovvero il capitalismo, non è qualcosa di “dato”. Questo processo, che Mattei chiama “naturalizzazione del capitalismo” e che ci porta a delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari, sono espressione della depoliticizzazione dell’economia che è stata condotta scientemente attraverso l’impiego di una terminologia fuorviante e inaccessibile. D’altra parte perché darsi la pena di capire se davvero stanno operando per il bene comune? Il nostro distacco, la depoliticizzazione, svolge dunque un ruolo di salvaguardia dello status quo, «rendendoci impotenti e rafforzando il nostro consenso passivo verso una società che opprime la maggioranza delle persone». Tuttavia il linguaggio tecnico nasconde una preoccupazione altamente politica per un sistema che gli stessi economisti e tecnocrati sanno bene non essere né eterno né tantomeno naturale. «La loro paura nei confronti di un disordine sociale che può far tremare l’economia capitalistica va di pari passo a soluzioni esplicitamente classiste, in cui la pillola amara deve ingoiarla sempre la gente comune». Ed è attraverso un’interessantissima lettura storica, dal primo dopoguerra ventennio fascita, che l’autrice ci dimostra che i tecnocrati sono consapevoli della fragilità dell’economia e di quanto questa sia basata su rapporti sociali «costruiti a partire da precise azioni collettive, che in quanto tali possono essere sovvertiti […] se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. Sono dunque le stesse azioni degli esperti che svelano come non vi sia nulla di più politico dell’operare per salvaguardare la nostra economia». Se il lavoratore è legato a una relazione di mercato, bisogna assicurarsi «che non vi siano alternative al vivere come lavoratori sfruttati». E lo si fa attraverso gli strumenti aggressivi delle politiche di austerità – fiscale, monetaria e industriale -, per affossare le masse e renderle più dipendenti dalle logiche di mercato: «L’austerità non è una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, è invece un’azione politica che agisce sulla capacità di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualità della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’élite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti». Allo stesso modo, poi, funziona il meccanismo della disoccupazione, «la regola del mercato», che «lungi dall’essere un problema per il nostro sistema economico, è anzi fortemente funzionale alla sua riproduzione […] la disoccupazione gioca un ruolo primario nel costruire un senso di impotenza materiale e psicologica rispetto a possibili alternative. Essa serve dunque come strumento di disciplina per far sì che i lavoratori accettino “l’ordine del capitale». E citando l’economista polacco Michal Kalechi, Mattei riflette: «All’interno del capitalismo, eliminare la disoccupazione poteva forse essere una possibilità tecnica ma certamente non era una possibilità politica, dato che “in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare”». Con un’ipotetica piena occupazione, infatti, «i lavoratori potrebbero ottenere sufficiente libertà politica da consentir loro di arrivare a contestare il fondamento stesso del capitalismo, ovvero il rapporto di sfruttamento».
La provocazione più interessante arriva all’ultimo, sostenendo che capitalismo e democrazia non siano compatibili: «Il suffragio universale dà l’impressione di avere il potere collettivo di decidere del futuro del nostro Paese», ma a un esame più attento «risulta evidente che tutti i partiti che ci governano, di qualsiasi colore siano, accettino quale presupposto indiscutibile il contesto capitalistico in cui operano». Riprendendo le parole di Ralph Miliband, aggiunge: «La lotta politica nei paesi capitalistici avanzati è stata uno scontro tra concezioni diverse del modo migliore di gestire lo stesso sistema economico e sociale, piuttosto che tra fautori di sistemi sociali radicalmente differenti». La democrazia elettorale, dunque, rafforza inconsapevolmente il consenso per le basi del capitalismo e delegare il potere alle banche centrali di dettare le condizioni di vita dei cittadini, ma anche l’operato dell’Unione Europea che «fin dal Trattato di Maastricht si fonda sul codice dell’austerità e appoggia i tecnocrati consentendo loro di proporre riforme istituzionali che colpiscono alla base i principi della democrazia», corona il progetto di austerità su cui si fonda l’attuale sistema economico, da proteggere a tutti i costi.
La parola d’ordine, dunque, è ripoliticizzare l’economia, o meglio, ri-democratizzarla,«per fare in modo che i cittadini si riapproprino delle scelte più importanti che regolano le basi stesse della loro vita», avvalendosi del potere trasformativo della lente critica per rompere con le categorie mistificanti a favore di una spiegazione semplice del nostro sistema economico da non considerare più come un ordine naturale delle cose. Il capitalismo può essere minato in una molteplicità di modi ed è in questo senso che bisogna avvalersi dell’intuizione gramsciana «secondo cui la conoscenza al contempo pratica e teorica può guidarci verso orizzonti nuovi ma a patto che ci mettiamo in gioco in prima persona». L’invocazione di Mattei è all’azione individuale e collettiva insieme, che parta dal basso, una rinnovata coscienza per riappropriarsi del bene che sia davvero comune a tutti, non solo all’1% più ricco. La consapevolezza politica è la chiave di questo processo trasformativo di riappropriazione dell’economia. Il cittadino «vive una servitù politica fondata su una servitù economica. La diseguaglianza di condizioni economiche (o meglio, la diseguaglianza delle posizioni all’interno dei rapporti di produzione) impedisce in effetti qualunque relazione genuinamente democratica tra esseri umani liberi. Parafrasando le parole del filosofo Zino Zini, non esiste libertà politica senza libertà economica, “che si perde quando la dipendenza dal mercato costringe la maggioranza delle persone a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere». L’auspicio è di riappropriarsi della parola libertà: «La libertà economica significa invece emancipazione dallo sfruttamento e dal dominio impersonale. È libertà dalla centralità ossessiva e totalitaria della sfera economica. È una vera liberazione».
Ricco di riferimenti, citazioni e supportato da una corposa bibliografia, il libro di Clara Mattei brilla per un’argomentazione che non tradisce l’impianto di fondo di tutta la sua argomentazione: la semplicità, l’immediatezza, la comunicazione spogliata da tecnicismi, la capacità di sintesi. L’analisi storica comparata che occupa la sezione centrale del volume, dall’emblematico titolo Il codice dell’austerità, è una preziosa lezione che rileva l’importanza di uno sguardo critico e diacronico, in cui risalta in maniera chiara e definitiva l’assunto fondamentale è che economia e politica non possono che considerarsi variabili dipendenti. Il pregio di questo scritto, che tuttavia è un po’ l’uovo di Colombo e si inserisce in un filone di recente fortuna, è che non si elargiscono verità a buon mercato come è invece prassi nella saggistica divulgativa. Attraverso la sua insigne esperienza accademica e militante, Mattei dà voce a una generazione che è esasperata dalle continue ingerenze dell’economia sul proprio futuro e su quello di un pianeta portato alla distruzione: sempre più Millennials e giovani appartenenti alla Gen Z, infatti, hanno acquisito una consapevolezza insperata sul disastro che si profila all’orizzonte e una voce critica come quella dell’autrice è la freccia che penetra ben oltre la superficie di un facile slogan. Gli uomini e le donne ritratti sulla copertina del libro, un “Quarto Stato” post-moderno, sono proprio quei giovani, che avanzano per pretendere quanto gli spetta e avanzano proprio contro quei tecnocrati ed economisti a cui vogliono sottrarre i fili dei propri destini. E riprendersi la libertà.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: L’economia è politica. Tutto quello che non vediamo dell’economia e che nessuno racconta
Autore: Clara E. Mattei
Editore: Fuori Scena
Anno di pubblicazione: 2023
Pagine: 186
ISBN:979-12-225-0000-3
Prezzo: 16,50€