Sono passati quarant’anni e anche allora si votava per le elezioni europee. Ricordo che quando Valentino Parlato, allora direttore del “manifesto”, mi disse di partire per Padova, mi sentii male. Ero giovane, 27 anni, e lavoravo in quel giornale solo da quattro, avevo imparato un po’ di mestiere ma avevo ancora tanta strada da fare, solo l’idea di dover raccontare la fine di Enrico Berlinguer, il mitico segretario del Pci, per un giornale che in quel Partito era nato e da quel Partito cacciato (quando Berlinguer ne era il vicesegretario), mi terrorizzava. Ma ovviamente feci la valigia, e presi un treno notturno per Padova, “dormendo” in cuccetta perché soldi non ce n’erano per pagare vagoni letto e grandi alberghi. Infatti, nella città dove la sera prima Berlinguer era stato colpito da un ictus durante un comizio, io e Alberto Ferrigolo, corrispondente del giornale dal Veneto, trovammo da dormire sul divano di Pietro Folena, che era il segretario cittadino del Pci. Notti scomode ma a costo zero.
Durante quel viaggio insonne mi chiedevo perché fui scelto proprio io per raccontare un fatto che avrebbe cambiato (in peggio) la storia della sinistra e della politica italiane, quando in quella redazione c’erano colleghi – anzi compagni, così ci chiamavamo tra noi – molto più esperti, politicamente e professionalmente. La risposta è stata che nessun altro voleva lasciare la navetta in tempesta, tutti preferivano essere lì a controllare che titoli avremmo fatto, cosa avremmo scritto, chi avrebbe scritto, insomma quale “linea politica” il manifesto avrebbe scelto di fronte a quell’evento. Mettiamoci anche un pizzico di pigrizia, ed eccomi in viaggio.
All’ospedale di Padova, centinaia di persone per strada, silenzio e pianti, qualche pugno chiuso, capiamo subito che le condizioni del leader (allora si chiamava segretario, a volte compagno segretario, per i più intimi compagno Enrico) sono disperate. Non c’è alcuna possibilità che Berlinguer si salvi, è solo questione di tempo, poco tempo. Eppure si spera che non sia così, lo sperano tutti in tutta Italia, compagni, amici e nemici, perché Berlinguer era amato e rispettato da tutti, anche dagli avversari più accaniti. E lo sperano tutti coloro che incessantemente stanno lì davanti all’ospedale. Lo sperano naturalmente i dirigenti del Pci, in molti vengono a Padova, mi ricordo Pietro Ingrao visibilmente commosso, ma in realtà tutti sono commossi, anche i cronisti dei grandi e piccoli giornali.
E ricordo l’infaticabile Tonino Tatò, che non solo era il capo dell’ufficio stampa del Pci, ma anche un amico di Berlinguer. Era sempre in piedi, sempre di corsa, non so se avesse mai dormito durante quei tre giorni, parlava con i colleghi, raccontava le ultime ore di vita del leader, il malore sul palco, le parole che non riusciva a pronunciare ma che lui, ostinato come tutti i sardi, continuava a cercare, non voleva smettere di parlare mentre la folla gridava “basta, basta”. Poi lo sbandamento e infine i suoi compagni che lo sorreggevano, l’ambulanza e la corsa all’ospedale, mentre Tatò gli teneva la mano cercando di rianimarlo con parole dolci.
Le giornate e le nottate si susseguono frenetiche, ogni due ore si sparge la voce che il segretario è morto, nessuno molla un secondo, tutti gli inviati hanno paura di “bucare” la notizia. Ricordo che una notte in cui eravamo tutti nell’hall dell’albergo che ospitava lo stato maggiore del Pci e i giornalisti dei grandi giornali, scese trafelato e tutto sudato, i capelli spettinati, un importante inviato. Era stato svegliato dal suo caporedattore in modo molto brusco: “Che cazzo stai facendo, Berlinguer è morto e tu stai scopando…”. Nessuna delle due notizie era vera, almeno non la prima (la seconda non abbiamo potuto verificarla…), ma questo era il caotico e torrido clima che si respirava in quei giorni, faceva anche molto caldo.
Raccontare l’agonia di un uomo non è piacevole, oltretutto non c’era molto da dire: quell’uomo era ormai incosciente, tenuto in vita solo dalle macchine. Ma invece quello che succedeva fuori dalla sua stanza d’ospedale era straordinario. C’era un pezzo del popolo comunista che soffriva, e che in qualche modo rappresentava tutti quelli che non erano a Padova. Cioè milioni e milioni di persone, che leggevano i giornali, guardavano la televisione ascoltavano la radio in attesa di buone notizie che non potevano arrivare. E piangevano, anzi si disperavano, c’era una donna che in lacrime ripeteva “No, no, no”, altri si coprivano la faccia, tutti restavano in silenzio. Un lutto profondo e intimo. Qualcuno ci domandava quale fosse la situazione lassù, le condizioni mediche, se c’era stato qualche segnale di ripresa, ma noi non potevamo che dir loro la verità, cioè che Berlinguer stava morendo e che sarebbe morto. Anche tutti quei dirigenti del Pci, erano distrutti, magari riuscivano a trattenere le lacrime ma le loro facce parlavano da sole. Ogni tanto alcuni di loro si fermavano a parlare con noi cronisti, ma dicevano poco perché non c’era nulla da dire, di solito allargavano le braccia e sussurravano poche parole accorate: “Non c’è più niente da fare”.
L’ultimo giorno di Enrico Berlinguer finisce presto, a mezzogiorno dell’11 giugno del 1984, il segretario muore. Già nella notte i segnali che arrivavano alle macchine dal suo cervello erano scomparsi, restava solo il cuore, un monitor registrava il suo battito sempre più lento, alla fine una linea continua. Disperazione, dentro e fuori l’ospedale, arriva anche Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica: “Me lo porto via con me. Come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta. C’è mancato, sì c’è mancato. Ma c’è rimasto il suo esempio”.
E Pertini sul serio se lo porta via con lui, insieme a Letizia, la moglie di Enrico, e ai figli, sull’aereo presidenziale che partirà da Venezia. Ma da Padova bisogna andare in macchina, e quel corteo funebre sarà accompagnato da centinaia di persone che si affollano sui lati della strada per salutare il loro segretario, operai che hanno finito il turno di lavoro e cittadini di ogni ordine e grado si precipitano per salutare quel piccolo grande uomo verso il suo ultimo viaggio.
A Roma viene allestita la camera ardente nella storica sede del partito in via delle Botteghe oscure, migliaia di persone si mettono in fila per salutare ancora una volta il segretario, tra loro anche Giorgio Almirante, il capo del Msi, cioè un fascista che tuttavia provava rispetto per il suo storico avversario. Nessuno lo fischia, nessuno protesta, commozione e disciplina.
Intanto, io ero salito su un treno a Verona dove mi aveva accompagnato Alberto con la sua macchina, anche stavolta una notte in cuccetta, dormendo pochissimo ma consapevole di aver raccontato e partecipato a una vicenda politica, umana e professionale straordinaria. Che si concluse un paio di giorni dopo, con i funerali di piazza san Giovanni a Roma: centinaia di migliaia di persone, forse un milione, forse di più, un fiume di gente, un fiume di bandiere rosse. Un fiume di lacrime. Che si riversarono nelle urne delle elezioni europee pochi giorni dopo, consentendo al Pci di diventare il primo partito italiano con il 33 per cento dei voti. Chissà cosa avrebbe pensato e detto oggi Berlinguer di fronte alla vittoria di Giorgia Meloni e del suo governo fascistoide? Meglio per lui non esserci.
Riccardo Barenghi