L’immorale Amerigo Dumini, capo della Ceka, la polizia segreta fascista, guidava i sicari che il 10 giugno 1924 rapirono e uccisero Giacomo Matteotti. Arrestato a causa di prove talmente inoppugnabili che nemmeno il regime potava occultare, in un processo farsa a Chieti, marzo 1926, difeso da Roberto Farinacci, fu condannato a soli cinque anni di reclusione di cui quattro condonati. Riprese subito la sua vita da avventuriero, tenendo Mussolini sotto ricatto per ottenere continue elargizioni. Allevatore di polli, imprenditore agricolo, oste, contrabbandiere, spia partecipò alla guerra. In Africa gli inglesi, dopo la cattura, lo portarono davanti al plotone d’esecuzione ma, pur raggiunto da “diciassette colpi” (come recita il titolo della sua autobiografia) e dato per morto, riuscì a fuggire. Durante la repubblica sociale organizzò un traffico di automobili, pezzi di ricambio, armi. Si infilò nelle file degli Alleati come autista del comando inglese e in queste vesti fu arrestato il 18 luglio 1945.
Un nuovo dibattimento sull’omicidio di Matteotti, aprile 1947, emise la sentenza di ergastolo. Ma già nel 1953 era fuori per un’amnistia. Rientrato in carcere a causa di un vizio di forma, il 23 marzo 1956 lasciò definitivamente il penitenziario di Civitavecchia. Poco dopo si iscrisse al Movimento Sociale. Non svolse aperta attività politica ma di fatto la fiamma sgorgante dal sarcofago del Duce per uno come lui era un richiamo irresistibile. Quello stesso fuoco arde ancora oggi nel simbolo di Fratelli d’Italia.
Giorgia Meloni, durante la commemorazione dell’ultimo discorso che il deputato socialista pronunciò in Parlamento, quello che per la forza delle denunce contro la violenza e la corruzione, (tema sul quale il governo temeva devastanti rivelazioni a proposito dei contratti con la compagnia petrolifera Sinclair Oil) equivalse ad una condanna a morte, ha onorato “un uomo libero e coraggioso ucciso da squadristi fascisti per le sue idee”. Finalmente è riuscita a pronunciare la parola proibita, hanno rimarcato i benevoli commentatori. In realtà, si è trattato della semplice ammissione di un’incontrovertibile verità storica e giudiziaria.
Il punto sono proprio le idee professate da Matteotti. Il quale non può essere ridotto alla stregua di un innocuo santino riformista e moderato che persino Gennaro Sangiuliano rivendica di avere in tasca. “Le sue battaglie sono le mie”, è arrivato a dire il ministro della Cultura. Ma lo sa che il Nostro fu un rivoluzionario, nel senso che voleva cambiare radicalmente le condizioni di vita dei contadini, degli operai, degli, sfruttati, degli umili? Non amava e non esercitava la violenza eppure, non volendo rompere con i massimalisti, a differenza di Filippo Turati, giustificò le loro azioni. In pieno biennio rosso, 1920, evoca davanti a Giovanni Giolitti, allora presidente del consiglio, “l’assalto finale della piazza”.
Già nel 1901, a sedici anni, scrive su “La Lotta”, periodico del Polesine: “La proprietà è la cagione di tutti i mali. Il socialismo è l’unica speranza di cambiamento”. Strenuo pacifista e antimilitarista, allo scoppio del primo conflitto mondiale, mentre gli austriaci scendono verso Vicenza, proclama: “A noi non importa che il nemico sia alle porte, siamo dei senza patria”. Viene condannato con la condizionale (poi assolto in cassazione) a trenta giorni d’arresto per “grida sediziose” e “disfattismo”. Il 5 febbraio 1915 il “Corriere del Polesine”, espressione degli agrari, attuando una campagna diffamatoria e di intimidazione nei suoi confronti, aveva titolato: “Il dottor Matteotti deve scomparire”. Macabri profeti di quel che sarebbe accaduto nove anni dopo.
I compagni lo avevano soprannominato “tempesta” a causa del carattere indomabile e appassionato. Non aveva paura di alcunché. Mentre la violenza in camicia nera devastava città e campagne, lui continuava indefesso l’opera di proselitismo. A Ferrara il 18 gennaio 1921 viene aggredito, insultato, coperto di sputi. Il 12 marzo, a Castelguglielmino, provincia di Rovigo, lo sequestrano, lo riempiono di botte, forse lo stuprano.
Era un internazionalista, già parlava di Stati Uniti d’Europa, accusava la Società delle Nazioni di essere troppo debole. “Che ho a che fare io con gli schiavi?”, si chiedeva Gobetti. E allora, che ha a che fare Matteotti con gli eredi del partito che accolse Dumini, il suo assassino? Che ha a che fare con la nipotina di Giorgio Almirante, con Matteo Salvini, con il generale Vannacci?
Sabato e domenica, sulla scheda per le Europee bisognerebbe scrivere idealmente “Giacomo Matteotti detto Tempesta”. Lunedì 10, mentre verranno ufficializzati i risultati delle elezioni, si celebrerà il centesimo anniversario del suo martirio. Facciamo in modo che non sia un giorno di triste sconfitta.
Marco Cianca