Europa grande assente. A poco più di due settimane dal voto dell’8 e del 9 giugno, tra dibattiti tv rimandati, candidate e candidate che già sappiamo non andranno a Bruxelles e propaganda che sembra più voler distruggere che rinnovare il concerto europeo, la nostra politica sta usando le imminenti elezioni per una resa dei conti tutta nostrana. Certo non mancano programmi e slogan, ma non hanno la forza di affiorare, di distinguersi in questo tumultuoso tutti contro tutti. Proprio quando siamo chiamati a decidere la prossima composizione del parlamento europeo, mettiamo l’Europa sullo sfondo, in lontananza. Una realtà che c’è, che diamo per scontata, e nei confronti della quale siamo subito pronti a rinfacciarle ciò che non va.
Penso di non sbagliarmi nel dire che buona parte del popolo della Georgia prenderebbe volentieri il nostro posto per votare i propri rappresentanti a Bruxelles. Mentre l’Italia, tra i fondatori del sogno europeo, guarda alla sua creatura con ostilità, disprezzo, sfiducia e sospetto, in Georgia le persone, avvolte nella bandiera dell’Europa, scendono in piazza contro la legge sugli agenti stranieri che avvicina il paese alla dittatura russa. La presidente georgiana, Salomé Zourabichvil, ha posto il veto alla legge russa perché “contraddice la nostra Costituzione e tutte le norme europee, quindi rappresenta un ostacolo sul nostro cammino europeo”. Vi immaginate la nostra politica, o parte di essa, che con la stessa passione denuncia una norma perché lontana da valori europei? Io faccio fatica.
Sarebbe disonesto dire che tutto funzioni a Bruxelles, ma siamo molto più bravi a ricordarci gli errori che le opportunità, e a vedere l’Europa come matrigna e non come madre. E così il nostro immaginario è popolato dal 3% di Maastricht, dallo spread, dalla rigidità della Germania della Merkel e del defunto ministro delle finanze Schäuble, dalla Grecia, dalla Troika e dal rispetto dei conti che mortifica le aspirazioni dei popoli. E troppo facilmente ci dimentichiamo del Pnrr – visto, a volte, come una noia per via dei suoi adempimenti, e del quale l’Italia è il paese che ne beneficia maggiormente – dei numerosi fondi che non riusciamo mai a spendere e che invece sarebbero una leva di riscatto per molte aree economicamente depresse, del whatever it takes con il quale Draghi ha tenuto dritta la barra della moneta unica durante la crisi dei debiti sovrani, offrendo un riparo soprattutto per stati come l’Italia, del fatto che siamo parte di uno dei mercati liberi più grandi e ricchi al mondo, fattore non trascurabile per un’economia come la nostra alimentata dall’export più che dai consumi interni, e dello sforzo di tutela dei diritti e delle libertà che l’Europa mette in campo quando gli stati latitano.
Insomma troppo spesso puntiamo il dito contro Bruxelles. Ci pariamo dietro al “ce lo chiede l’Europa” per nascondere la nostra inerzia politica e quei limiti imputabili principalmente alla nostra responsabilità. Ci lamentiamo delle scelte prese scordandoci che i nostri rappresentanti hanno tra i più alti tassi di assenteismo. Per alcuni di loro lo scranno europeo non è un impegno ma una parentesi dalla politica nazionale, un passatempo, una vacanza.
E mentre in Georgia protestano e cantano avvolti dalla bandiera europea, per noi quel vessillo è ingombrante, diviso, come un parente scomodo che vogliamo tenere nascosto.
Tommaso Nutarelli