L’inverno demografico è la più grave delle emergenze del nostro paese e sta a indicare un inesorabile declino della popolazione residente, stretta nella morsa dell’invecchiamento e della denatalità. È dal 2014 che il saldo demografico resta negativo anche includendo l’immigrazione; da allora vi sono 1,4 milioni di residenti in meno di cui più di 900mila nel Mezzogiorno. L’Italia non è solo il Paese col tasso di natalità e di occupazione più bassi nell’Unione, ma – al contrario di quanto accade nelle esperienze internazionali in cui ‘’ il tasso dell’occupazione femminile è correlato positivamente al tasso di natalità’’ (ovvero le lavoratrici sono anche madri e le madri continuano a lavorare) da noi vi è una differenza di 20 punti nel tasso di occupazione tra le donne tra i 25 e i 40 anni senza figli e quelle con figli in età prescolare. In sostanza ‘’le donne senza impiego suppliscono ai limiti del nostro sistema di welfare’’.
Ma per rovesciare questo circolo vizioso sono necessarie politiche e strutture adeguate nel campo delle politiche sociali, a partire dagli asili nido. Si arriva quindi ad una questione di ‘’volontà politica’’ nell’allocazione delle risorse. E qui sta il punto chiave della nostra storia. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è pari a 1/17° di quanto viene destinato alle pensioni. Dal 1995 ad oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche per la famiglia (e la natalità) a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari (AF) era pressoché corrispondente a quella per le pensioni.
Gli AF allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare (ANF) il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato attraverso una scala di equivalenze, al reddito e al numero dei componenti. La riforma del sistema pensionistico, attuata nel 1995 stabilì, a copertura, una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7% (in seguito al 33%). Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota dell’ANF passò dal 6,2% al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23% allo 0,66%.
Si è calcolato che dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, pari a circa 120 miliardi di euro. Il Governo Meloni ha avvertito questa emergenza e oltre ad aver promosso in vari campi una politica di benefici per le donne con figli, ha seguito la politica dei governi precedenti relativamente all’istituzione dell’Assegno unico universale (AUU: una prestazione di carattere assistenziale) che ha rappresentato l’inizio di una inversione di rotta. Ma la quota universale è relativamente bassa, rispetto ad altre esperienze e all’esigenza di consentire a una famiglia di mantenere inalterato, dopo l’arrivo di un figlio, il proprio livello di benessere. Il reddito mensile dovrebbe migliorare– secondo Neodemos – in media di 720 euro, considerando solo gli aspetti economici.
Il fenomeno della denatalità è in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione, le donne italiane sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Al 1° gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni erano poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite. Questo fattore è alla base di circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. In poche parole si sta spezzando la filiera della riproduzione sociale.
Ovviamente questi fenomeni si scaricano sul mercato del lavoro e dei sistemi di welfare. Nelle coorti comprese tra i 20 e i 65 anni – centrali nel mercato del lavoro- alla fine del decennio verranno a mancare 1,8 milioni di persone che dieci anni dopo, nel 2040, diverranno 5,7 milioni, che non potranno essere rimpiazzati dalle coorti che seguono, perché anche loro in un trend di diminuzione; né da quelle che precedono anche se, nel 2050, i giovanissimi (da 0 a 14 anni) saranno sorpassati addirittura dagli ultra ottantenni. Si tenga presente che si tratta di popolazione residente: il che significa che vi sono inclusi anche i flussi di lavoratori stranieri. Qui si dovrebbe aprire un altro tipo di ragionamento. Paradossalmente un maggiore ingresso di cittadini stranieri sarebbe sicuramente un rimedio più facile e adeguato nei tempi piuttosto che la capacità di rimettere in moto la natalità. Ammesso e non concesso il conseguimento di questo obiettivo, ci vorrebbero comunque decenni per recuperare quanto si è dilapidato nel corso di altrettanti decenni. Ma sarebbe necessario saper trasformare l’immigrazione da una ‘emergenza ad una opportunità. Il governo ha aumentato i flussi (500mila in tre anni) mentre ha aperto una prospettiva di maggiore solidarietà tra i diversi paesi per quanto riguarda l’accoglienza.
Alessandra Servidori