Non è mai bello impedire a qualcuno -chiunque- di parlare. Nemmeno se è un ministro del governo Meloni, anzi, tanto più se è un ministro del governo Meloni, che in diversi casi non ha esitato a silenziare, grazie ai poteri propri di un governo, chi non condivide le sue posizioni. Dunque sarebbe stato meglio lasciarla parlare, anche per dare seguito al sanissimo principio di ‘’non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te’’. E quindi come non concordare col presidente Mattarella nella critica alla contestazione di cui è stata oggetto Eugenia Roccella, titolare del dicastero della famiglia o come si chiama adesso.
Ma vanno fatte alcune, secondo me doverose, precisazioni. La prima: si è parlato di “censura”, ma quello che è accaduto alla titolare della famiglia ha un altro nome, e cioè ‘’contestazione’’. La censura viaggia dall’alto verso il basso, ed è legata al potere, la contestazione fa il tragitto contrario, cioè ai alza dal basso verso chi ha il potere. Ed è questo il caso delle poche decine di studenti che hanno strillato contro Roccella, a meno che non si voglia credere di vivere in una sorta di iperuranio dove il potere è in mano agli studenti e non al governo. Altro sano principio democratico è infatti che qualunque governo deve poter essere contestato: come è accaduto sempre, ai governi di qualunque colore.
La seconda osservazione, più importante, è sulla reazione della diretta interessata. Roccella ha forse un problema di rapporto con il conflitto: la si può capire, è un problema che ben conoscono proprio le donne, troppo spesso timorose di entrare in tensione con figure come partner, capoufficio, persino figli, e dunque pronte a battere in ritirata, con le proprie istanze, pur di non dover affrontare una battaglia o anche solo una lite. Ma da un ministro della repubblica ci si aspetta sia più temprato: che non si arrenda di fronte al primo che alza la voce.
Certo, ci vuole in fisico bestiale, come cantava quello, e non tutti ce l’hanno: ma i leader dovrebbero. Per restare nel nostro campo delle relazioni industriali: non era scappato Luciano Lama, quando nel 1977 gli autonomi gli impedirono di parlare all’università di Roma, ma restò sul palco sotto una tempesta di insulti, fino a che non fu evidente che era troppo rischioso per la sua incolumità, essendo quelli anni in cui si sparava, e non solo si strillava. In tempi più recenti e per fortuna assai meno drammatici: non scapparono davanti alle piazze piene di lavoratori imbufaliti i leader di Cgil Cisl e Uil, quando cercavano di spiegare la manovra di Giuliano Amato del 1992, che penalizzava fortemente il mondo del lavoro. Non erano solo fischi e insulti: Bruno Trentin fu aggredito e malmenato su una piazza fiorentina, Sergio D’Antoni fu colpito in faccia da uno dei tanti bulloni con cui venivano bersagliati i sindacalisti, Sergio Cofferati parlò protetto dagli scudi di plexiglas della polizia. Ma parlarono tutti, sostennero le proprie ragioni, nessuno scappò via.
Roccella, invece, davanti a una contestazione ben più blanda, guidata da trenta ragazzini muniti solo di cartelli e di una voce ancora adolescenziale, ha preferito tacersi. Peccato, perché quello che aveva da dire era interessante. Lasciando da parte le consuete e ormai inevitabili polemiche su aborto o non aborto, nella lettura roccelliana della crisi demografica ci sono spunti di riflessione che meriterebbero di essere sviluppati in un contesto più sereno (per chi volesse approfondire, il suo intervento annullato è stato pubblicato integrale dal Foglio di venerdi 10 maggio), anche, e soprattutto, da chi non li condivide. Sarebbe decisamente utile a tutti se le cause e le conseguenze della non-natalità italiana fossero un argomento che non susciti isteria, ma dibattito serio, con interesse e attenzione. Anche da parte dei ragazzi, certo.
Nunzia Penelope