Di una democrazia sfigurata e vilipesa, posta sotto attacco, che non è mai garantita eppure data per scontata. Oggetto mobile, duttile e malleabile, la cui sostanza viene continuamente compromessa e rimaneggiata à la carte. La democrazia che viene da lontano, nata dalla ragione degli antichi, ripensata in ogni epoca e in ogni epoca compresa come speculum principi, o meglio speculum populi, che riflette l’essenza della contingenza e di chi la vive. La democrazia che vive di equilibri instabili, rinegoziati e rinegoziabili. Ma qual è, oggi, lo stato di salute della democrazia? Siamo davvero arrivati all’ultimo atto di quella «forma politica in cui l’Occidente concentra le promesse della modernità e realizza la propria identità?». Carlo Galli – docente universitario di Storia delle Dottrine politiche, nonché filosofo e politologo – condensa a riguardo un’interessante riflessione nel suo libro Democrazia, ultimo atto? (Einaudi, 133 pagine, 15 euro) muovendo da un’analisi storica, non storicistica, per cercare «di capire il presente attraverso il passato» e «portare alla luce ciò che di quel passato è presente, permane: ossia l’origine dell’epoca e delle su strutture sociali e politiche». Galli assume che il passato sia il grande rimosso della nostra cultura e, soprattutto, «il grande assente dal dibattito sulle sorti della democrazia», intriso com’è il nostro pensiero di un presentismo che sterilizza la riflessione sulle forme (e le derive) della politica. Quello che manca, per l’autore, è quindi un certo spessore del pensiero, ottenibile solo nel rapporto dialettico tra passato-presente-futuro, tra le contraddizioni insite nel concetto stesso di democrazia per smascherarne le aporie e poterle controllare. In breve: manca filosofia. «Non si può fare politica senza fare filosofia, senza esercitare la forza critica e costruttiva di un pensiero rivolto all’azione», perché «democrazia è la lotta della luce della ragione contro l’autorità, contro la gerarchia naturale, contro l’opacità e il segreto». La chiave per mettere a punto una concreta diagnosi della democrazia occidentale risiede nel realismo critico, dove «la critica – l’autocritica – è la prima ancora di salvezza delle democrazie; che hanno il loro principale nemico non nelle autocrazie esterne, né nelle ideologie anti-democratiche, ma nella mancata riflessione su se stesse».
Democrazia, dunque, definita un equilibrio instabile tra universale e particolare: «Lo sforzo di far coesistere il potere con l’energia dell’autoaffermazione individuale e collettiva (la libertà), con l’intento di limitarne l’eccesso (l’uguaglianza), e con la finalità di istituire le strutture e le pratiche di una convivenza che le soggettività possano riconoscere – per quanto possibile – come opera propria (trasparenza)»; la forma politica che tende a istituire questo equilibrio e che pure si ha tanto il diritto quanto il dovere di raggiungere e conservare. È questo il cuore delle costituzioni liberaldemocratiche, nate «dai semi non molto fecondi delle precedenti esperienze» del fascismo e del nazismo. Ma se libertà, uguaglianza e trasparenza sono i tre assi portanti della democrazia che servono a fronteggiare le opacità che strutturalmente ineriscono la moderna politica democratica, le democrazie oggi sono intaccate «per eccessi opposti: per conformismi e automatismi, da una parte e per esasperazioni polemiche dall’altra; per spoliticizzazioni spurie e per politicizzazioni incongrue».
Con lo sguardo lungo al Novecento, l’equilibrio che ha consentito la buona stagione delle democrazie liberali (pure se di “importazione” statunitense, che ha imposto il proprio modello sul Vecchio Continente da ricostruire a propria immagine e somiglianza) si è infranto a favore dell’avvento della democrazia liberista a partire dagli anni Ottanta, inaugurata dalle politiche di Tatcher e Reagan a seguito di crisi internazionali, come quella del Kippur nel 1979, e dalla sostanziale disfatta del comunismo con la caduta del muro di Berlino del 1989. «Un ulteriore rottura di un altro equilibrio – scrive Galli -, quello fra economia e politica, sarà la fine della liberaldemocrazia, di quel singolare connubio tra la normalizzazione e le contraddizioni che si svilupparono dentro e fuori il perimetro dell’Occidente». La democrazia liberista, dopo comunismo, fascismo e liberaldemocrazia, viene definita «la quarta rivoluzione del XX secolo», una «rivoluzione passiva» efficacissima in cui la libertà prevale sull’uguaglianza. «Il nuovo verbo […] è l’individualismo competitivo, l’autovalorizzazione incessante dell’individuo. In questa prassi di continuo adeguamento alle esigenze della produzione e della prestazione, che è in realtà l’assoggettamento all’autovalorizzazione del capitale, consisterebbe la libertà, la potenza creatrice. Che è con ogni evidenza limitata alla proprietà e al profitto, e che dà vita a una conflittualità di cui si vuole celare la politicità, presentandola come “naturale”». Una «pretesa di neutralizzazione non politica», dunque, che ha di fatto aumentato le disuguaglianze e dinanzi alla quale Galli pone una domanda: «Perché la crisi del mondo liberale è sopravvenuta senza che le forze della sinistra l’abbiano vista arrivare, né riuscissero a porvi rimedio? Perché quella crisi è invece sfruttata da destra?». Con l’avvento del XXI secolo, poi, e con il susseguirsi delle tre grandi crisi – debito sovrano, pandemia, guerra – si è entrati in una fase di postdemocrazia, definita da Galli «sostanza oligarchica rivestita di forme democratiche, a loro volta sempre più deformate» e che ha dato via all’insorgere preponderante dei populismi. O meglio, del sovranismo di destra, lo stesso che reagisce alle disuguaglianze neoliberiste «con proposte non egualitarie ma in certi contesti (ad esempio negli Usa) quasi anarcoidi e in altri (in Europa) con modalità identitarie ed escludenti, e con una rivalutazione postdemocratica della sovranità statale nazionalistica: la revanche sociale è ridiretta contro gli Altri, non contro i poteri dominanti (che infatti col sovranismo possono venire a patti)». Ma l’avanzata della destra, avverte Galli, non è la causa iniziale dello slittamento della democrazia verso la postdemocrazia: «È semmai il risultato più evidente della crisi interna della democrazia». Le destre, infatti, che sono molteplici e non una soltanto, parlano apertamente di quelle aporie e contraddizioni che tutti percepiscono rivolgendole a proprio favore, mentre la sinistra arranca nella lotta alle cause strutturali di questo squilibrio. La più evidente contraddizione della democrazia liberista asociale, in cui si è individui e non massa, è «che dentro di essa il soggetto e il popolo finiscono per avervi ruoli più passivi che attivi. La democrazia liberista sta divorando sé stessa dall’interno, e si avvia a essere né democratica né liberale […] né, dopo tutto, autenticamente liberista, proprio per il suo impianto oligarchico e tendenzialmente monopolista. In questa contraddizione, più che nel dividersi, spesso superficiale, dell’opinione pubblica in tribù contrapposte, c’è la debolezza, forse fatale, della democrazia nel nostro tempo».
Sono tre le opacità strutturali della postdemocrazia da cui Galli ci mette in guardia: tecnica, emergenza, guerra. Una triade di sostanziale spoliticizzazione e ribaltamento del paradigma moderno della trasparenza, in cui sono i poteri oligarchici a essere oscuri, segreti, ed è il cittadino, invece, a essere trasparente, spiato dal capitalismo di sorveglianza. Ma è contro gli abusi e gli arbitri del potere che si invoca la trasparenza per gli equilibri democratici, portando con sé una compressione dei diritti individuali che nel periodo pandemico hanno raggiunto il climax.
Siamo quindi davvero all’ultimo atto della democrazia? Quello di Galli è un funesto vaticinio? La verità è che no, qualcosa può ancora essere salvato e lo si può fare solo attraverso quel «realismo portatore di disincanto, che da quelle sfide elimina prima di tutto il carattere di “segreto”, che cioè le porta alla luce, apertamente e genealogicamente; nella convinzione che, ancora una volta, la democrazia non è garantita, e deve trovare la propria concretezza nella consapevolezza pubblica della complessità, nella percezione del chiaroscuro, nel corpo a corpo con la contingenza e con le opacità della politica». Galli invita a una presa di coscienza e invoca «una nuova discontinuità – dopo quella del 1945 e dopo quella degli anni Ottanta» che metta in luce, attraverso l’autocritica delle «derive spoliticizzanti e delle proprie politicizzazioni postdemocratiche» le aporie dell’ordine liberista che hanno inficiato la democrazia. Viene quindi invocata la necessità della politica: «[…] “indispensabile” al fine di rivitalizzare la democrazia sfigurata, implosa e collassata […] c’è, insomma, necessità di una “democrazia politica”, in lotta contro le forze postdemocratiche». Il che si configura come un dovere «di opporre alla deformazione della modernità una volontà di sapere (di critica) e di agire che ne porti in salvo l’orientamento emancipativo». Come fare? Per Galli non serve ricucinare le ricette del passato – anche della liberaldemocrazia e della socialdemocrazia, che pure sono crollate sotto le proprie contraddizioni -, «se non per ricordare che l’obiettivo anche della democrazia politica sarà, in modalità nuove, far coesistere un transitorio equilibrio fra conflitto e forma, fra politico e istituzione, fra libertà e diritto». Presupponendo, però, che il popolo sia un soggetto attivo e non “neo-plebe”, «iniziatore di una azione politica, innescata da minoranze […] che si uniscano […] istanze sociali e politiche concrete, determinate, e capaci di uno sguardo che vada al di là della mera affermazione delle identità». La soluzione, in ultimo, sta in “più politica” democratica, che (ri) nasca dall’esercizio di un sapere critico-pratico e non dall’improvvisazione populista. «Solo l’incessante opera della critica è la dimensione in cui la speranza della democrazia può oggi sopravvivere: e ciò significa l’esigenza, tra l’altro, di una nuova stagione di impegno politico degli intellettuali». Alla fiducia riposta nel pensiero corrisponde però una nota di disincanto per l’azione pratica, per la quale Galli auspica che qualcuno, un domani, «commetterà un errore troppo grande, e si aprirà una lacuna nel sistema; che forse si produrrà un evento che offrirà un varco in cui potranno entrare forze di liberazione, nelle quali confluiscono i rivoli delle lotte e dei saperi che oggi, pur sparsi, pur incerti, si muovono nelle società; forze capaci di guardare in faccia[…] le opacità che salgono dal profondo, e di non lasciarle al governo dalle oligarchie postdemocratiche».
Quello di Carlo Galli – cha impegnato la sua riflessione sulla democrazia con altri saggi (Il disagio della democrazia,Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Democrazia senza popolo. Cronache dal Parlamento sulla crisi della politica italiana) – è un libro necessario per un’epoca di lungo sonno del pensiero – anzi, per un’epoca in cui il pensiero è stato defenestrato da una mediaticità di consumo istantaneo, per cui si affidano a pochi caratteri gli svolgimenti critici della dialettica politica. Ma nonostante l’intento divulgativo, e la brevità della trattazione lo dimostra, il delegare alla classe intellettuale (sic!) il compito di suonare la tromba sembra più una ritirata che una chiamata alle armi. Si ha l’impressione, infatti, che sia proprio quella stessa classe intellettuale ad aver contribuito alla disfatta e all’avanzare di quel “pensiero unico” che Galli apertamente aborrisce. È particolarmente interessante la dura critica che l’autore rivolge a quel gotha di sinistra – politica e intellettuale – che ha capitolato dinanzi alle sirene del benessere incontrollato e all’onda lunga dell’ottimismo neoliberista, che probabilmente più delle destre è rimasto impigliato nella rete dell’inganno oligarchico e ne è rimasto avviluppato. Lo stesso errore – anzi, le stesse debolezza e mancanza di acume che stanno lasciando campo larghissimo e apertissimo all’avanzata degli estremismi, in Italia come in Europa. Quindi, più che affidare il timone a timidi marinai, occorrerebbe auspicare l’avvento di forti condottieri di spiccata intelligenza politica. Un’utopia, forse, ma è dai momenti di grandi crisi che vengono fuori i miracoli più prodigiosi.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Democrazia, ultimo atto?
Autore: Carlo Galli
Editore: Einaudi – Collana Stile Libero Extra
Anno di pubblicazione: 2023
Pagine 133 pp.
ISBN: 978-88-06-25773-6
Prezzo: 15,00€