In questo periodo, va di moda citare Kant. In particolare, per esorcizzare i venti di guerra, si sprecano i riferimenti “Alla pace perpetua”. Sono passati trecento anni dalla nascita (22 aprile 1724) e duecentoventi dalla morte (12 febbraio1804). Non lasciò mai Konigsberg, l’attuale Kaliningrad. I cittadini più spiritosi dicevano che si sarebbe potuta controllare l’esattezza degli orologi in base alla puntualità nella consueta passeggiata pomeridiana. Camminava da solo, non per misantropia, ma perché desiderava respirare esclusivamente con le narici, in quanto così l’aria arrivava nei polmoni più temperata, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato costretto, conversando, ad aprire la bocca.
Un borghese di umili origini, madre pietista, preciso, metodico, pignolo, igienista, bonario, socievole, senza avventure, una vita segnata solo dai successi intellettuali e accademici. Una grande testa su un piccolo corpo (era alto poco più di un metro e cinquanta). Un cervello ambulante. Gli piacevano il biliardo, le carte e la buona cucina. Non si sposò né si conoscono particolari passioni amorose. Sembra che prima di spirare, sussurrasse “Es ist gut”, va bene così.
Thomas de Quincey, in “Gli ultimi giorni di Immanuel Kant”, definisce la vita dell’immenso pensatore “notevole non tanto per i suoi avvenimenti quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano”. Lo scrittore inglese, famoso per le “Confessioni di un mangiatore di oppio”, descrive con impietosa acribia la decadenza fisica e mentale di colui che aveva eretto un monumento alla Ragione. Cominciò a perdere la memoria e a soffrire di emicranie. Già nel 1799 disse ai suoi amici: “Signori, sono vecchio, debole e puerile, e dovete trattarmi come un bambino”.
Affermava di non avere paura della morte, avvolto da uno stato di perpetua rassegnazione, senza cognizione del tempo. Cadeva spesso e si assopiva durante la lettura, finendo con la faccia sopra le candele, a rischio di ustioni. Una volta prese fuoco il berretto di cotone. Soffriva di fissazioni, specie riguardo ai domestici. Il declino delle facoltà lo rendeva confuso e disorientato. “Non posso più servire al mondo- diceva – e sono un peso a me stesso”. Faceva sogni agghiaccianti, popolati da spettri e assassini. Per vincere il panico del buio, teneva sempre acceso un lume. I dolori allo stomaco lo tormentavano e la vista si affievoliva progressivamente, dell’occhio sinistro aveva perso l’uso. Ad ottobre del 1803 fu costretto per un lungo periodo a letto, a dicembre non riusciva più a scrivere il proprio nome.
Nelle ultime settimane, muto o farfugliante, non riconosceva le persone che lo attorniavano, nemmeno la sorella. Vegetava. Eppure, “di quando in quando, qualche lingua di fiamma, qualche bagliore di una grande luce si irradiava per mostrare che il vecchio fuoco stava ancora covando”. Entrò in agonia. Fino alla domenica mattina del 12 febbraio 1804. “In un primo momento la respirazione divenne più debole; poi si fece più irregolare, poi si arrestò totalmente e il labbro superiore ebbe una leggera contrazione; seguì un debole respiro o un sospiro, poi più nulla; ma il polso batté ancora per qualche secondo, più lento e più fievole, più lento e più fievole, finché cessò del tutto; il meccanismo si era arrestato; l’ultimo movimento si era concluso; Ed esattamente in quel momento l’orologio batté le 11”.
Così, nel racconto dei testimoni che de Quincey riprese e sublimò, morì Immanuel Kant. Viene da pensare che il noumeno, il confine della conoscenza umana, concetto che il filosofo prussiano riprese da Platone, sta tutto lì, in quegli ultimi spasimi. L’intreccio tra esperienza e sintesi a priori, tra fenomeni esterni e imperativo morale, tra intuizioni sensibili e volontà, si ferma al limitare della vita.
Le tre Critiche, cioè distinzioni, (Ragion pura, Ragion pratica, Giudizio) vacillano come un castello di carte investito dalla demenza senile del loro autore. Eppure, non crollano, monumento imperituro alle capacità dell’umana mente.
Ora, nel trecentesimo anniversario della nascita, non sono tanto tali famosissime opere ad essere citate quanto il testo “Alla pace perpetua”. Forse perché il titolo stesso, ripreso da un’iscrizione satirica apposta sull’insegna di un’osteria olandese accanto al dipinto di un cimitero, suona come la speranza che possa esistere un mondo senza guerre ed ecatombi.
La filosofa albanese Lea Ypi rimarca dalle colonne del Financial Times che “i paragrafi più noti del saggio di Kant sono quelli in cui sostiene che i diritti delle nazioni devono fondarsi su un federalismo tra stati liberi”. Ricorda che quelle tesi antibelliciste furono fonte d’ispirazione per l’Unione Europea e ammonisce: “Le uniche trincee in cui dovremmo scendere sono quelle della ragione”.
Es ist gut.
Marco Cianca