Sono quattro, come è noto, i quesiti depositati nei giorni scorsi dalla Cgil presso la Corte di cassazione, in vista del referendum che dovrebbe svolgersi tra circa un anno, nella primavera 2025. Se tutto andrà bene, certo: se le firme saranno raccolte, e se la Corte costituzionale riterrà ammissibili tutti e quattro i quesiti. Per le firme non dovrebbe esserci problema, la confederazione guidata da Maurizio Landini ha i mezzi e le strutture per arrivare nei tempi stabiliti, cioè entro settembre, a raccogliere le 500 mila firme previste dalla legge sui referendum. Vale la pena di ricordare che nel 2016, quando propose altri tre referendum, ne raccolse tre milioni e mezzo. Quanto all’ammissibilità dei quesiti, starà ai giudici costituzionali, come sempre, dare il loro inappellabile parere.
Intanto, però, ciascuno può iniziare a farsi un’idea dando un’occhiata più da vicino ai famosi quesiti, così come sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 13 aprile scorso. I testi sono tutti preceduti dalla premessa di legge ( “Ai sensi degli articoli 7 e 27 della legge 25 maggio 1970, n. 352, si annuncia che la cancelleria della Corte suprema di cassazione, in data 12 aprile 2024, ha raccolto a verbale e dato atto della dichiarazione resa da tredici cittadini italiani, muniti dei certificati comprovanti la loro iscrizione nelle liste elettorali, di voler promuovere la raccolta di almeno 500.000 firme di elettori prescritte per la seguente richiesta di referendum di cui all’art. 75 della Costituzione” ) ma anche molto differenti tra loro quanto a formulazione.
Il primo quesito depositato è secco, e chiede l’abolizione tout court di un preciso testo di legge, ovvero il decreto legislativo del 2015 varato dal governo Renzi, in pratica il cuore del Jobs Act:
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?», si legge nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Non c’è dubbio che questo sia il referendum di punta, quello su cui la Cgil conta per trascinare tutti gli altri (che come vedremo sono assai più ostici da leggere, e quindi anche da comprendere). Una operazione che in qualche modo ricorda quella del 2016, quando sempre la Cgil, all’epoca guidata da Susanna Camusso, avviò altri tre referendum, il primo e più importante dei quali mirava alla reintroduzione dell’articolo 18 contro i licenziamenti eliminato dal governo Renzi, estendendolo anche alle aziende al di sopra dei 5 dipendenti (lo Statuto dei Lavoratori lo prevedeva dai 15 in su). Gli altri due quesiti erano relativi alla cancellazione dei voucher e alla responsabilità delle imprese in caso di appalti, quest’ultimo riproposto anche nella nuova tornata referendaria. Tuttavia, proprio il quesito sull’articolo 18 venne ritenuto non ammissibile dalla Consulta, smontando di fatto la portata principale del referendum. Anche questa volta il quesito sul Jobs Act è il più importante, soprattutto in termini di visibilità, spendibilità mediatica e semplicità: “vuoi tu abrogare il Jobs act?” Si o no? Facile.
Meno semplici, quanto meno come formulazione, i successi tre quesiti. Il secondo riguarda l’identità per i licenziamenti, partendo da una legge del 1966, il testo chiede all’elettore:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”?».
In pratica, un certosino lavoro di ritaglio tra una parola e l’altra, fino a raggiungere l’obiettivo, che consiste nel cancellare il tetto all’indennizzo previsto per i licenziamenti nelle piccole aziende sotto i 15 dipendenti. Oggi il tetto è collocato tra le sei e le dieci mensilità al massimo; la Cgil propone di invece di abrogare questo limite e lasciare liberi i giudici di deciderne l’ammontare dell’indennizzo.
Terzo quesito, ancora più complesso, per eliminare il ricorso ai contratti a termine al di fuori dei motivi stringenti di precise esigenze aziendali:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1-bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente”?».
E infine il quarto e ultimo quesito, legato al tema degli appalti:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?».
Un altro delicato ricamo di parole, dunque, per ottenere che i committenti degli appalti siano responsabili in solido in caso di infortunio o malattia di un lavoratore dell’azienda a cui è stato affidato l’appalto. Oggi il lavoratore non può chiedere i danni all’impresa committente, e se il referendum avrà successo potrà.
Nunzia Penelope